Torre Maura, la borgata diventata quartiere. Una mutazione genetica, non solo antropologica, nel senso pasoliniano del termine. Lo capisci appena arrivi che questa realtà romana nata negli anni Venti, col passar del tempo ha assunto la connotazione di città con tutti i crismi cambiando la sua essenza profonda. Percorri strade che hanno il nome di ornitologi e di uccelli, sono più di sessanta, e ti accorgi della continua evoluzione del paesaggio. Nonostante i tentativi di modernità, ti stupisce la capacità del territorio di preservare angoli nascosti e fermi nel tempo.
Allo spaesamento che ti coglie all’uscita della metro C sostituisci il conforto del borgo e della piccola comunità che ritrovi non appena ti spingi all’interno. Alla frenetica circolazione della Casilina e del vicino raccordo anulare si contrappone di colpo la pace di un orto urbano; dal fragore della frenetica circolazione ti consoli col rassicurante profumo di pane caldo che si diffonde da un vecchio e blasonato forno; agli spaesanti viali spartitraffico nei pressi della fermata della metro C – linee parallele in cui la vista si perde all’infinito – rispondi con la riposante veduta degli ultimi brani di campagna romana, con spettacolari resti di acquedotto e gregge di pecore.
Sviluppatasi sul percorso dell’antica via Labicana oggi Casilina nell’area del cosiddetto “Lazio antico”, Torre Maura deve il suo nome a una costruzione i cui ruderi sono nella vicina via di Torre Spaccata, poco dopo l’incrocio con la consolare.
Tornando ai giorni nostri, abbandoniamo i metafisici e stranianti spazi della stazione metro, ci incamminiamo all’interno e, a destra di via Enrico Giglioli – zoologo e antropologo italiano morto nel primo Novecento – incontriamo la prima significativa presenza della zona. Via delle Canapiglie fa da cintura a un grande complesso popolare di palazzi Ater, l’istituto di gestione regionale impegnato da anni in una vertenza con un agguerrito comitato di assegnatari degli alloggi che reclamano interventi di risanamento degli immensi casermoni. A vederli dall’alto hanno la forma del numero otto con le estremità ad angolo retto. All’interno, nell’ampio spazio verde del cortile c’è silenzio, regna la pulizia, ci sorprende un giardino attrezzato con giochi per bambini. C’è pure un centro anziani e scorgiamo un’antica targa con l’indicazione di un club di “Forza Italia”. Lo spirito di aggregazione è forte da queste parti. La nostra incursione si arricchisce dei profumi di cucina del fine settimana: un saporito ragù cui fa da contraltare l’intenso profumo di mimose di due splendide piante all’esterno dei palazzi. Le “geometrie periferiche” dei casermoni, osservate da lontano, ci persuadono che non tutti i progetti di edilizia intensiva sono da buttare.
Passato lo sbigottimento, ci spingiamo tra gli imponenti edifici venuti su con il progetto Isveur nel 1977, sei palazzine di sette piani per 460 famiglie. “Ricordano molto le nostre periferie”, sussurrano due compagne di passeggiata provenienti dall’Ucraina e non si può non convenire, ripensando ai casermoni nei dintorni di Praga e Budapest. Sarà per l’orario, sarà che è sabato mattina, sarà il percorso alternativo che scegliamo ma di persone non se ne incontrano molte.
Analoga sensazione di vuoto ci arriva dal CSOA, centro sociale occupato dagli anarchici. Vuoto, ma non abbandono in questo luogo sospeso nel tempo e bellissimo, in cui ogni cosa parla, dai muri agli oggetti. Simboli ideologici e qualche traccia di vita: dalla svettante bandiera nera ai curatissimi murali con pantere, grattacieli, scacchiere che mai potranno incasellare lo spirito libertario dei frequentatori. “Padroni di nulla pedoni di nessuno, per l’anarchia” precisa il motto impresso sul muro, su cui la data 1992-2012 celebra i venti anni di autogestione.
Si prosegue verso via dei ruderi di Casa Calda, un luogo dal notevole passato di cui resta soltanto la torre e il muro di un casale. In lontananza, sulla distesa verde che ricorda un paesaggio pasoliniano, parte dell’acquedotto Alessandrino rammenta l’ingegno dell’edilizia nell’Antica Roma. Le preesistenze insistono su una villa tardo repubblicana di cui restano ampie tracce sia pavimentali che murarie. Il fascino della campagna romana, resa ancor più romantica da un gregge di pecore avvolge tutto e fa il paio con il maestoso, imponente e abbandonato rudere, che dopo esser passato di mano in mano, nei secoli, tra le famiglie più in vista della città subisce identica sorte di gran parte delle antichità di pregio.
Nella parrocchia ci accoglie un vivace gruppo di scout impegnati in un gioco di abilità e da qui rientriamo nella borgata storica, dove al posto dei palazzoni prendono il sopravvento le garbate palazzine venute su fuori piano regolatore.
Procediamo su via dei Colombi, ci colpisce una strada intitolata al passero solitario che evoca Leopardi e, sarà la suggestione dei nomi, sarà il silenzio atavico di queste viuzze ma il cinguettio degli uccelli da queste parti sembra più intenso. Dopo il riposante verde della campagna romana un contrasto di colore ci viene offerto da un villino color aragosta in vendita. E’ ricco di motivi marinari: oblò al posto delle finestre, pensiline a forma di vela, mura arrotondate e spazi con motivi geometrici.
Stanchi e soddisfatti torniamo sulla Casilina e qui non possiamo non provare un senso di mestizia e tenerezza osservando i binari del vecchio trenino ormai abbandonati. Perché non trasformare quella parte di sede stradale in una pista ciclabile? Un sogno, un auspicio, speriamo una realtà.
P.S. Mentre scriviamo, arrivano dalla TV notizie incendiarie sul centro accoglienza di via dei Codirossoni, quello del nostro diverbio con una operatrice. Circa 70 persone di etnia rom sono state trasferite lì dentro, suscitando una rivolta popolare. Ė proprio così: l’integrazione è una chimera…
[Giuseppina Granito]
Articolo redatto a seguito del serendipitour organizzato il 9 marzo 2019 nell’ambito del progetto EU Walk Together con Marchio MIBAC per l’Anno europeo del patrimonio culturale.