Torre Maura, borgata mutante

Torre Maura, la borgata diventata quartiere. Una mutazione genetica, non solo antropologica, nel senso pasoliniano del termine. Lo capisci appena arrivi che questa realtà romana nata negli anni Venti, col passar del tempo ha assunto la connotazione di città con tutti i crismi cambiando la sua essenza profonda. Percorri strade che hanno il nome di ornitologi e di uccelli, sono più di sessanta, e ti accorgi della continua evoluzione del paesaggio. Nonostante i tentativi di modernità, ti stupisce la capacità del territorio di preservare angoli nascosti e fermi nel tempo.

Allo spaesamento che ti coglie all’uscita della metro C sostituisci il conforto del borgo e della piccola comunità che ritrovi non appena ti spingi all’interno. Alla frenetica circolazione della Casilina e del vicino raccordo anulare si contrappone di colpo la pace di un orto urbano; dal fragore della frenetica circolazione ti consoli col rassicurante profumo di pane caldo che si diffonde da un vecchio e blasonato forno; agli spaesanti viali spartitraffico nei pressi della fermata della metro C – linee parallele in cui la vista si perde all’infinito – rispondi con la riposante veduta degli ultimi brani di campagna romana, con spettacolari resti di acquedotto e gregge di pecore.

Sviluppatasi sul percorso dell’antica via Labicana oggi Casilina nell’area del cosiddetto “Lazio antico”, Torre Maura deve il suo nome a una costruzione i cui ruderi sono nella vicina via di Torre Spaccata, poco dopo l’incrocio con la consolare.

Torre Maura. Targa per Luigi Termano. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Torre Maura. Targa per Luigi Termano. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Di memorie la zona ne conserva tante: a colpirti, all’arrivo, è la targa affissa all’uscita della metro in ricordo di Luigi Termano, giovane operaio morto nella realizzazione dell’avveniristica linea di trasporto il 1° marzo 2012. Anche le “Grandi Opere” hanno le loro vittime, ricordate senza troppo clamore. Per tornare all’antico, merita menzione il sepolcro di epoca imperiale in via dell’Aquila reale, da osservare con malinconia per l’abbandono in cui versa. Rinvenuto nel 1962 grazie agli scavi per costruire due palazzine, miracolosamente salvato dalla Soprintendenza archeologica giace lì, sacrificato dietro un’inferriata, dimenticato da tutti, ignorato da chi dovrebbe valorizzarlo, celebrato soltanto dalla colonia di gatti che staziona nelle vicinanze, curata e nutrita a puntino.

Tornando ai giorni nostri, abbandoniamo i metafisici e stranianti spazi della stazione metro, ci incamminiamo all’interno e, a destra di via Enrico Giglioli – zoologo e antropologo italiano morto nel primo Novecento – incontriamo la prima significativa presenza della zona. Via delle Canapiglie fa da cintura a un grande complesso popolare di palazzi Ater, l’istituto di gestione regionale impegnato da anni in una vertenza con un agguerrito comitato di assegnatari degli alloggi  che reclamano interventi di risanamento degli immensi casermoni. A vederli dall’alto hanno la forma del numero otto con le estremità ad angolo retto. All’interno, nell’ampio spazio verde del cortile c’è silenzio, regna la pulizia, ci sorprende un giardino attrezzato con giochi per bambini. C’è pure un centro anziani e scorgiamo un’antica targa con l’indicazione di un club di “Forza Italia”. Lo spirito di aggregazione è forte da queste parti. La nostra incursione si arricchisce dei profumi di cucina del fine settimana: un saporito ragù cui fa da contraltare l’intenso profumo di mimose di due splendide piante all’esterno dei palazzi. Le “geometrie periferiche” dei casermoni, osservate da lontano, ci persuadono che non tutti i progetti di edilizia intensiva sono da buttare.

Complesso residenziale tra via Enrico Giglioli e Via delle Avocette: Foto: Associazione culturale GoTellGo [CC BY NC SA]
Complesso residenziale tra via Enrico Giglioli e Via delle Avocette: Foto: Associazione culturale GoTellGo [CC BY NC SA]
Ci allontaniamo al suono di una radio che diffonde la voce di Frank Sinatra con un salto indietro nel tempo, sensazione accresciuta dalla cabina telefonica, miracolato relitto di archeologia industriale che insieme a un accogliente bar “meglio di tanti locali in pieno centro” ci dà un senso di sicurezza.  Rassicuranti sono le piccole palazzine venute su per caso caratteristiche della primigenia borgata anni Quaranta. La vera sorpresa arriva poco dopo: “Gigli e Giglioli”, con azzeccato gioco di parole che richiama la via di accesso, è l’orto urbano che ci accoglie con colori e fragranze. Ė un’area privata il cui proprietario Antonio si intrattiene volentieri a parlare con noi. Ci narra i suoi trascorsi nell’orto, la collaborazione del fratello con la Facoltà di botanica della vicina università di Tor Vergata, la vendita di prodotti a chilometro 0, i rimedi per allontanare gli insetti dalle colture, i 200 litri d’olio prodotti dai maestosi ulivi che entro breve potrebbero soccombere di fronte all’inarrestabile avanzata dei palazzinari romani. Le loro minacciose tracce si avvertono in fondo all’appezzamento: sgraziati cubi di cemento si stanno trasformando in villini. La solita, inevitabile lottizzazione come quella che negli anni Cinquanta provocò l’abbattimento di un antico casale. Indisturbata incombe, favorita da conflitti di famiglia e complicità di un’amministrazione che non si distingue per spirito ambientalista. Ci colpisce lo sconforto dell’ortolano, attaccatissimo alla sua piccola isola di pace ma rassegnato alla sorte, impotente di fronte a un potere difficile da contrastare.

Orto urbano in Via Enrico Giglioli. Foto: Associazione culturale GoTellGo [CC BY NC SA]
Orto urbano in Via Enrico Giglioli. Foto: Associazione culturale GoTellGo [CC BY NC SA]
Il cammino prosegue verso via dell’Usignolo ma anche qui non ascoltiamo canti confortanti. Sconveniente il diverbio suscitato dalla normale curiosità del “viandante” verso un edificio all’apparenza abbandonato in via dei Codirossoni. Razionale nelle forme, dotato di pannelli fotovoltaici, intonacato in celestino chiaro, è una clinica in disarmo. Qualcuno si avvicina, scatta foto, legge l’insegna CAM, Centro Assistenza Migranti.

Ex clinica in Via dei Codirossoni. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Ex clinica in Via dei Codirossoni. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Non fa in tempo a riferirlo al gruppo che scatta l’immotivata aggressione di un’improbabile operatrice. Ci accusa di indebita intromissione e di avere, parole testuali, “noi gruppo di bianchi fotografato un nero indifeso”. Inutile precisare che non siamo nemici, non siamo razzisti, il nostro è mero interesse per il paesaggio. La discussione si protrae fin troppo ed evidenzia quanto sia difficile portare avanti programmi di integrazione con questa fragile parte della società.

Passato lo sbigottimento, ci spingiamo tra gli imponenti edifici venuti su con il progetto Isveur nel 1977, sei palazzine di sette piani per 460 famiglie. “Ricordano molto le nostre periferie”, sussurrano due compagne di passeggiata provenienti dall’Ucraina e non si può non convenire, ripensando ai casermoni nei dintorni di Praga e Budapest. Sarà per l’orario, sarà che è sabato mattina, sarà il percorso alternativo che scegliamo ma di persone non se ne incontrano molte.

Analoga sensazione di vuoto ci arriva dal CSOA, centro sociale occupato dagli anarchici. Vuoto, ma non abbandono in questo luogo sospeso nel tempo e bellissimo, in cui ogni cosa parla, dai muri agli oggetti. Simboli ideologici e qualche traccia di vita: dalla svettante bandiera nera ai curatissimi murali con pantere, grattacieli, scacchiere che mai potranno incasellare lo spirito libertario dei frequentatori. “Padroni di nulla pedoni di nessuno, per l’anarchia” precisa il motto impresso sul muro, su cui la data 1992-2012 celebra i venti anni di autogestione.

Murales anarchici a Torre Maura. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Murales anarchici a Torre Maura. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Più avanti la nostra curiosità di esploratori urbani a caccia di sensazioni è attratta da uno slargo a emiciclo attiguo a un edificio scolastico. Siamo in piazza delle Paradisee e al paradiso ci sentiamo vicini, considerato l’assemblaggio di sensazioni piacevoli che proviamo. Una miscela di sole, aria, luce, profumi, colori e un colpo d’occhio strepitoso sugli ultimi scampoli di campagna romana che rivendica la sua presenza. Sul muro è stato eretto un altarino devozionale dedicato alla Madonna del Divino Amore che attira occhi e cuore come la frase, meno ieratica ma  amorevole “Eva ti amo tanto sei la mia vita…”. Rattrista un po’ il manifesto funebre di Mario Bianchini: in borgata come nei paesi, le affissioni per i cari defunti sono numerose.

Si prosegue verso via dei ruderi di Casa Calda, un luogo dal notevole passato di cui resta soltanto la torre e il muro di un casale. In lontananza, sulla distesa verde che ricorda un paesaggio pasoliniano, parte dell’acquedotto Alessandrino rammenta l’ingegno dell’edilizia nell’Antica Roma. Le preesistenze insistono su una villa tardo repubblicana di cui restano ampie tracce sia pavimentali che murarie. Il fascino della campagna romana, resa ancor più romantica da un gregge di pecore avvolge tutto e fa il paio con il maestoso, imponente e abbandonato rudere, che dopo esser passato di mano in mano, nei secoli, tra le famiglie più in vista della città subisce identica sorte di gran parte delle antichità di pregio.

Serendipitourist a Via delle Case Calde. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Serendipitourist a Via delle Case Calde. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Due moderni edifici, assegnati all’associazione “Save the children”, completano il panorama. Alcuni anni fa tale assegnazione senza bando suscitò polemiche con i comitati di quartiere che reclamavano la destinazione degli stessi a uso pubblico per i servizi socioculturali.

Chiesa di Nostra Signora del Suffragio e Sant’Agostino di Canterbury. Foto: Associazione culturale GoTellGo [CC BY NC SA]
Chiesa di Nostra Signora del Suffragio e Sant’Agostino di Canterbury. Foto: Associazione culturale GoTellGo [CC BY NC SA]
Camminando avvertiamo la cacofonia tra rumori del traffico e le campane della chiesa intitolata a Nostra Signora del suffragio e Sant’Agostino di Canterbury, imponente costruzione che ricorda una fortezza e richiama i motivi delle torri tanto presenti in zona est.

Nella parrocchia ci accoglie un vivace gruppo di scout impegnati in un gioco di abilità e da qui rientriamo nella borgata storica, dove al posto dei palazzoni prendono il sopravvento le garbate palazzine venute su fuori piano regolatore.

Procediamo su via dei Colombi, ci colpisce una strada intitolata al passero solitario che evoca Leopardi e, sarà la suggestione dei nomi, sarà il silenzio atavico di queste viuzze ma il cinguettio degli uccelli da queste parti sembra più intenso. Dopo il riposante verde della campagna romana un contrasto di colore ci viene offerto da un villino color aragosta in vendita. E’ ricco di motivi marinari: oblò al posto delle finestre, pensiline a forma di vela, mura arrotondate e spazi con motivi geometrici.

Coloratissimo villino a Torre Maura. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Coloratissimo villino a Torre Maura. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Divertente la serranda di un negozio che ritrae un Giovanni Paolo II mentre pronuncia la celebre frase “Damose da fa’… semo romani”.

Damose da fa, semo romani. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
Damose da fa, semo romani. Foto: Giuseppina Granito [CC BY NC SA]
L’asse centrale di via dei Colombi – la via del Corso del quartiere – è animata. Un negozio in fila all’altro, botteghe della vita, non le asettiche catene che dominano il centro di Roma tutte con gli stessi articoli. Qui a Natale i commercianti hanno gareggiato per il presepe più bello: ognuno ha creato la sua rappresentazione con i propri strumenti di lavoro, pasta, pane, stoffe, cartone. Creatività e operosità in borgata dominano.

Stanchi e soddisfatti torniamo sulla Casilina e qui non possiamo non provare un senso di mestizia e tenerezza osservando i binari del vecchio trenino ormai abbandonati.  Perché non trasformare quella parte di sede stradale in una pista ciclabile? Un sogno, un auspicio, speriamo una realtà.

P.S. Mentre scriviamo, arrivano dalla TV notizie incendiarie sul centro accoglienza di via dei Codirossoni, quello del nostro diverbio con una operatrice. Circa 70 persone di etnia rom sono state trasferite lì dentro, suscitando una rivolta popolare. Ė proprio così: l’integrazione è una chimera…

[Giuseppina Granito]

Articolo redatto a seguito del serendipitour organizzato il 9 marzo 2019 nell’ambito del progetto EU Walk Together con Marchio MIBAC per l’Anno europeo del patrimonio culturale.

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.