Oggi vi voglio descrivere un gioiello del Rione Trastevere, la chiesa di S. Maria dell’Orto in via Anicia, costruita là dove, in epoca etrusca, si localizzavano i Prata Mutia, ovvero l’accampamento del re etrusco Porsenna durante l’assedio dell’Urbe.
Vi consiglio di arrivarci da via della Madonna dell’Orto, così da godere di un colpo d’occhio sulla facciata rinascimentale, attribuita da molti al Vignola (1507-1573), caratteristica per la presenza di undici guglie piramidali in travertino.
E grazie alle sue inconfondibili guglie, la riconosciamo subito, in basso a sinistra, nella Pianta di Roma di Antonio Tempesta, rivista da Giovanni Giacomo de Rossi nel 1693. Tutta l’area era costellata di orti racchiusi da alti muri e pertinenti alle chiese di S. Cecilia, S. Francesco a Ripa, S. Crisogono. A pochi passi c’era l’animato Porto di Ripa Grande con la vicina dogana, il complesso del San Michele ancora non era stato costruito.

Come ogni chiesa romana, anche S. Maria dell’Orto è stata costruita secondo la tradizione a seguito di un miracolo: erano gli anni Ottanta del Quattrocento e un contadino colpito da una grave paresi pregò la Madonna di fronte a una sua immagine collocata nei pressi di un orto. Il contadino guarì e così sul luogo del miracolo venne eretta una cappellina votiva, trasformata alcuni anni dopo in una vera e propria chiesa.
L’iscrizione in latino sulla trabeazione della facciata ci racconta proprio questa storia, che tradotta recita:
La cappella rovinata della Vergine Deipara e dell’Orto, i confratelli trasformarono in questa chiesa, la dedicarono, vi aggiunsero un ospizio per nutrire i poveri forestieri, a proprie spese e per propria devozione.
Nel linguaggio ecclesiastico, Maria, madre di Dio di Dio, viene definita “deipara” per proclamare la divinità di Gesù Cristo.
La costruzione della chiesa si deve all’Arciconfraternita di S. Maria dell’Orto, istituita nel 1492 da papa Alessandro VI Borgia. Il sodalizio riuniva numerose associazioni di mestiere (le universitas) cui aderivano produttori di derrate alimentari e fornitori di servizi: ortolani, pizzicaroli (salumieri), fruttaroli, sensali di Ripa e Ripetta, molinari, vermicellari (produttori di pasta), pollaroli, scarpinelli (calzolai), vignaroli, mosciarellari (caldarrostai), barilai e giovani garzoni.
Si trattava di un vero e proprio sodalizio mestierale che, pur avendo tra i suoi scopi primari il culto e la beneficenza, gestiva anche una spezieria e l’annesso ospedale realizzato in contemporanea alla chiesa da Martino Longhi il Vecchio (1534-1591) e in uso sino alla fine del Settecento.

Il nosocomio aveva una capienza di cinquanta posti letto per i malati delle universitas, triplicabili in caso di epidemia. L’assistenza veniva garantita da un medico, un chirurgo, uno speziale, due giovani di corsia , un cuoco e un facchino. I lavoratori salariati, in servizio presso ‘ospedale avevano l’obbligo del celibato per meglio servire i malati, come si può leggere su un’iscrizione purtroppo non accessibile.
Un’iscrizione pavimentale, al termine della navata, ricorda che il dipinto venne collocato qui nel 1556 a spese dell’Universitas dei Pizzicaroli.
La chiesa, intitolata a Maria, è ricca di riferimenti e simbolismi mariani: affreschi con le storie di Maria e decorazioni accompagnate da motti e simboli che rimandano alle Litanie della Beata Vergine Maria, alla Genesi e a Inni mariani. Una vera e propria caccia al tesoro, Tra i motti, possiamo leggere Felix Coeli Porta, Maris Stella, Foederis Arca, Iter para Tutum, tra i simboli il sole, le stelle, la luna: Maria, infatti, è la luna che riflette la luce del sole, ovvero Cristo. Anche le finestre laterali della navata centrale simbolizzano Maria portatrice di luce.
Pur essendo la chiesa dei popolani, le corporazioni fecero a gara per accaparrarsi bravi artisti e “sponsorizzare” le loro opere in ogni angolo della chiesa, dalle cappelle al catino absidale: troviamo pertanto affreschi e tele di artisti importanti come i fratelli marchigiani Federico Zuccari (1539-1609) e Taddeo Zuccari (1529-1566) o il romano Giovanni Baglione (1573-1643), grande rivale di Caravaggio che qui è presente con opere giovanili, della piena maturità e della fase finale della carriere artistica, o ancora il marchigiano tardo-manierista Niccolò Martinelli detto il Trometta (1535-1611).
La volta, invece, è opera del siciliano Giacinto Calandrucci (1646-1707) che dipinse un’Assunzione di Maria incorniciata da numerosi stucchi dorati. Secondo la tradizione, non comprovata da alcun documento, l’oro per la doratura giunse a Roma grazie alla spedizione in America di Cristoforo Colombo.

Guardando alla controfacciata, volgete lo sguardo verso il grande organo ottocentesco, finanziato dall’Università dei Padroni molinari. Ai lati della cantoria, anche se distanti, due dipinti illustrano prospettive di mole sul Tevere. Ricordiamo infatti che ve ne erano molte in attività presso la vicina Isola Tiberina.
All’interno di una cappella a destra della navata centrale, potete vedere un ritratto del presbitero Giuliano Nakaura, uno dei quattro ambasciatori giapponesi giunti a Roma dopo essersi convertito al Cristianesimo, morto martire nel 1633.
Ogni anno, da più di cinquecento anni, la terza domenica di ottobre, in occasione della Festa dell’Arciconfaternita, al termine della Messa vengono distribuite mele ai fedeli. Ciò rimanda all’antica usanza del capofamiglia che, al termine del pasto domenicale, divideva una mela con un numero di spicchi pari a quello dei suoi commensali, alludendo con quest’azione alla prima lettera ai Corinzi dove san Paolo accennava all’unità nella diversità del corpo mistico della Chiesa. La mela, sferica e simbolo di perfezione, scudo contro il maligno e salutare per il corpo e l’anima, va mangiata dopo aver recitato un’Ave Maria: una mela benedetta che fa da contraltare al frutto mangiato dalla peccaminosa Eva.
La sera del giovedì santo, invece, viene allestita la mastodontica Macchina delle quaranta ore, un macchinario ottocentesco in legno intagliato e dorato su cui vengono collocate e accese 213 candele.
Per quanto riguarda il rito delle Quarant’ore, il numero quaranta in questo caso fa riferimento alle ore durante le quali Gesù fu privo di vita prima della Resurrezione dalle tre di pomeriggio del Venerdì santo alle sette di mattina della domenica. Sembra che il rito risalga al Duecento, anche se la pratica di utilizzare le “macchine delle 40 ore”, apparecchiature effimere e fatte di materiali semplici, raggiunse la massima diffusione in età barocca (sappiamo che Pietro da Cortona realizzò due apparati (perduti) per le chiese di San Lorenzo in Damaso e del Gesù). Purtroppo solo una di queste macchine è sopravvissuta e si trova proprio qui a Santa Maria dell’Orto. Fu realizzata nel 1848 sulla base di un disegno secentesco con motivi floreali grazie alla maestria dell’ebanista Luigi Clementi. Assistere all’accensione delle candele in occasione della Missa in coena Domini,” il giovedì santo”, è un vero tuffo nella storia. Infatti col tempo, l’uso di questi macchinari si perse e ancora oggi, con l’eccezione di Santa Maria dell’Orto, il rito delle Quarant’ore si limita all’ostensione dell’ostia consacrata e alla sua adorazione.
Magnifica Chiesa !
È magnifica come la descrizione !
Grazie