La nostra passeggiata nel quartiere della Magliana è fissata per domenica 20 settembre. A Roma non è un giorno qualsiasi. Quest’anno si celebrano i 150 dalla Breccia di Porta Pia, l’annessione della città al Regno d’Italia. Per anni Magliana è stata considerata come una parte distinta dalla Capitale, un mondo a sé, difficile da includere nel tessuto urbano. Tanto che la ferrovia Roma-Civitavecchia, che costeggia il quartiere fin dal 1859, ha visto l’apertura di una fermata qui soltanto nel 1996 e non ne porta neanche il nome, avendolo mutuato dalla vicina Villa Bonelli. Lo stigma è duro da abbattere.
Serena ha 14 anni e un sogno nel cassetto: fare la regista. Coltiva anche una singolare passione: adora la luna, che la guida in tutte le scelte della vita. Superando le resistenze dei genitori che la vorrebbero al liceo classico, si iscrive alla Scuola d’arte cinematografica “Gian Maria Volonté” di via Greve, nel quartiere Magliana di Roma e con il docufilm La luna sulla Magliana racconta le donne immigrate che abitano lì. Vince il premio dell’International Film Festival per il miglior corto. Partiamo da qui, dall’avverarsi di questo sogno giovanile, per raccontare questa parte di Roma in cui molti hanno smesso di sognare.
Se dici Magliana il pensiero va subito alla Banda che dalla metà degli anni Settanta tanta violenza seminò nella Capitale e al “Canaro”, autore del sanguinoso omicidio del malavitoso Giancarlo Ricci nel 1988. Partendo dalla fermata del treno, scopriamo un mondo a cui nessuno ha mai fatto cenno, di cui i media non hanno mai parlato. Ė il volto produttivo, creativo, associativo, dell’impegno civico, di coloro che di Roma si sentono parte integrante con un sentimento più deflagrante delle cannonate con cui Raffaele Cadorna, nel 1870, infierì sulle mura aureliane. Grazie a tali energie questa zona un tempo paludosa, malarica, depressa, si sente oggi un tassello importante nel mosaico di una città dalle molteplici espressioni. Un’annessione senza esplosivo, un’unione dello spirito e delle idee.
Come prima tappa ci imbattiamo nel precursore dell’innovazione: Pier Luigi Nervi e i suoi padiglioni in ferrocemento, materiale di sua invenzione, in grado di conferire grandi potenzialità alle opere edilizie consentendo inusitate acrobazie strutturali. Ai tempi della “Nervi & Bartoli” negli anni Quaranta questi manufatti costituivano un campus intorno a una piazza mentre oggi uno è ridotto a supermercato e quello che resta, sebbene goda di un vincolo di tutela dal 2016, giace in stato di abbandono relegato in un’area adibita a parcheggio, sconosciuto alla collettività, ignorato alla stregua dei tanti manufatti di ingombro delle carreggiate stradali.
Ė il paradosso di questa città: dell’orrida parabola del Canaro si conosce ogni dettaglio, della mirabile storia dell’ingegnere che ha arricchito l’Italia con le sue opere, si ignora ogni cosa. Perfino l’esistenza del manufatto da cui partirono le sue ardite sperimentazioni. Proseguiamo il cammino dalle strade laterali: via Trequanda, via Greve, via Città di Prato, non senza l’obbligata sosta davanti alla ex toeletta per cani dal truculento passato. L’odonomastica urbana qui richiama la Toscana e lo stesso spirito del celebrato film “Amici miei” ritroviamo nei capannelli di uomini che sostano nella piazza principale intitolata a Fabrizio De André che giocano a carte sotto un gazebo formato da piante rampicanti.
Ė domenica mattina e in giro non si incontrano molti giovani né donne, ciascuno ha il proprio ruolo. I primi a riposare per smaltire gli strapazzi della probabile movida, le altre relegate al compito di casalinghe alle prese con la preparazione dei pranzi del giorno di festa.
Lungo il cammino scopriamo a mano a mano tutti i punti di aggregazione in cui si esprime la vitalità e la ricchezza culturale del quartiere: dal centro anziani alla scuola popolare di musica Arvalia, denominazione del municipio XI in cui ricade la zona, dovuta al Collegio sacerdotale dei Fratres Arvales, confraternita che qui aveva la sua sede. E ancora, l’Assemblea delle Chiese cristiane e l’Associazione “Vivere la gioia”; sul nostro cammino scopriamo il gruppo di cultura ambientale “Città vivibile” e la celebrata scuola di cinematografia in cui Serena ha affinato le sue doti e vinto il premio, portando le storie di Magliana in tutta Italia. Scorgiamo per caso alcuni giovani in una sala biliardo sotto il piano stradale.
Non si può però intraprendere alcun cammino senza prima aver fatto cenno alla nascita del quartiere, a quei palazzoni realizzati sotto il livello del Tevere. A dirlo così sembra una leggenda metropolitana, come leggenda sembrano essere le gesta della Banda e del Canaro. Ma quello che altrove sembrerebbe irreale a Magliana è vero. Senza scendere nel dettaglio, nel racconto storico che la copiosa letteratura e l’abbondante sitografia sul tema possono ben compensare, ha del miracoloso la tenacia con cui l’agronomo piemontese ed estroso senatore Michelangelo Bonelli riuscì, negli anni Venti, a trasformare la palude in terra feconda. Vigne, campi, frutteti, case rurali, numerosi appezzamenti con altrettanti mezzadri rappresentarono un riscatto per la Tenuta di Pian due Torri, appartenuta in precedenza a confraternite, poi allo Stato pontificio. Tra i mezzadri di Bonelli si distinse su tutti Tullio, memoria storica del luogo. Durante il Ventennio l’area – posta in un punto strategico per i sogni mussoliniani della città verso il mare – assunse un ruolo centrale per i ventilati progetti di espansione ma non se ne fece nulla, per l’opposizione di Bonelli allo smembramento dei suoi possedimenti, per la cui trasformazione aveva cancellato tutti gli allevamenti preesistenti. Gli eventi successivi mutarono completamente il quadro: la guerra, le successioni, la volontà realizzatrice del genero del senatore, Adriano Tournon discendente di Camille, primo urbanista della Roma moderna. Un peso determinante nelle future scelte edificatorie lo ebbe la disastrosa alluvione del 1937, che contribuì a far apprezzare un’idea che negli anni del boom divenne il più consistente degli investimenti: l’edificazione. Un termine che a Roma, sovente, fa rima con speculazione. Dai carteggi, presi in esame dal comitato di quartiere negli anni delle lotte sociali emerge, in embrione, ciò che diventerà il filo conduttore della storia dell’urbanistica romana: quei rapporti “gelatinosi” tra gli uffici comunali e i costruttori, i cui riflessi sono sotto gli occhi di tutti in ogni strada della Capitale.
Camminare a Magliana, nel suo perimetro esterno, significa avvertire una presenza nascosta ma costante, si percepisce l’esistenza di un protagonista non invadente ma importante che ben presto ci apprestiamo a scoprire. Ci arriviamo affrontando una rampa di scale: il Tevere è lì, placido e opaco, elemento che ha condizionato l’edificazione del quartiere. Tutta colpa dei grafici. Negli uffici comunali degli anni Sessanta è sufficiente cambiare colore a una particella della planimetria e il gioco è fatto. Si entra di diritto – ma non di fatto – nell’area compresa nel Piano regolatore, perimetro privilegiato che il Comune dovrà dotare di tutti i servizi. Ma così, a Magliana, non è. Risultato: niente fogne, nessuna illuminazione pubblica, niente di niente. Solo il pericolo delle piene del fiume, per anni visto come nemico. Norme ministeriali, piani regolatori, varianti urbanistiche sembrano ignorare ogni prescrizione. Con il passare degli anni arriva la riscossa: le lotte per la casa, l’autoriduzione dell’affitto, le rivendicazioni per i servizi minimi, la crescita di una coscienza sociale e il grande collante dell’aggregazione. Così, sulla spinta dei comitati di base, si comprende che il fiume da nemico può diventare fratello.
Negli anni Novanta si fa sempre più insistente l’idea di realizzare nell’area golenale di Pian Due Torri il Parco del Tevere Sud, polmone verde e riscatto per la gente di Magliana, un progetto fortemente sostenuto dall’associazione Italia Nostra, che prende vita nel 2007 e si realizza definitivamente nel 2015. Scopriamo questa oasi di pace, superati i canyon dei palazzi, con piacere e con grande sorpresa, dopo aver transitato per una pista di skateboard abbandonata e degradata, costata alla comunità 60mila euro.
Costeggiamo la pista ciclabile che da una parte guarda il corso d’acqua, dall’altra gli oscuri profili dei casermoni, frutto del piano particolareggiato numero 123, cifre in sequenza come ininterrotta è la sequenza dei palazzoni da “standard intensivo” che agli abitanti di Magliana non hanno lasciato i minimi spazi vitali. Una perla del ministero dei Lavori pubblici che dà il la a un piano “rispondente alle esigenze di un’organica composizione di un nuovo quartiere”, come si legge sui documenti, seppure gravato da pesanti prescrizioni che, in quanto pesanti, nessuno osserverà. La principale, il cosiddetto “reinterro” per prevenire gli allagamenti, per cui ciò che è al di sotto dell’argine fluviale deve essere coperto, viene ignorata dai costruttori e i palazzi che da 8 dovevano diventare di 7 piani, restano tal quali al progetto iniziale. Non tutti i mali vengono per nuocere perché, per nemesi storica, il non interrato, insalubre come abitazione, negli anni diventa sede di quei gruppi e movimenti di cittadini che rivendicheranno un riscatto dalla misera condizione imposta loro dai rampanti imprenditori dell’epoca. Così, il Comitato di quartiere, la Scuola popolare di musica, il centro anziani, la già citata Scuola d’arte cinematografica, il centro sociale Macchia rossa, il centro di aggregazione giovanile, l’Associazione InsensInverso, la cooperativa di recupero delle tossicodipendenze Magliana 80 negli ultimi decenni hanno riscritto la storia: non più quella della Banda e del Canaro ma quella delle idee e dei progetti, dell’accoglienza, dell’integrazione e del reinserimento.
Camminando sulla ciclabile, a ridosso del Parco Tevere Sud apprezziamo la varietà del paesaggio: da una parte il trionfo della natura, la rigogliosa vegetazione che mai ci si sarebbe aspettati venendo dal soffocante abitato. Su tutto dominano i razionali profili degli edifici dell’EUR di fronte a noi, con in testa il palazzo della Civiltà italiana che sembra osservarci, con le sue arcate simili a tanti occhi, dalla sponda opposta.
All’abbagliante biancore dell’edificio fa da contraltare quell’oscura tinta indefinita tipica degli edifici in disarmo: mura slabbrate, intonaci cadenti, ringhiere rugginose. Ė la ex scuola “Otto Marzo” – dismessa come l’altra di zona, la Quartararo, per carenza di ragazzi – occupata nel 2007, possibile oggetto di losche trattative tra gli occupanti per reperire un posto letto, per cui ci sarebbero 14 indagati. Sull’edificio pende dal 2016 un’ordinanza di sgombero, doveva essere recuperata come avvenuto per la Quartararo ora presidio della Protezione civile ma nonostante i 4 milioni stanziati si attende ancora una soluzione.
Passeggiare sul Tevere rimanda inoltre alla complessa storia degli attraversamenti sul fiume indispensabili, in passato, per la transumanza. E la memoria torna al vecchio ponte della Magliana realizzato in acciaio, smontabile, utilizzato tra il 1901 e il 1944, teatro di grandi eventi tra cui, nel 1910, la tragica morte dell’aviatore Vittorio Ugolino Vivaldi Pasqua e la sanguinosa battaglia tra i granatieri di Sardegna e i paracadutisti della Fallshirmjäger Division dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943. La “passerella” – così era chiamata dai romani l’opera all’epoca della sua costruzione nel 1878 – nacque come collegamento tra Prati e Ripetta e fu poi trasferita. Causa distruzione per gli eventi bellici fu smontata ma il nuovo ponte, ad opera di Riccardo Morandi, vide la luce soltanto nel 1952 e dal 2000 è iniziata la progettazione di un nuovo collegamento: il futuro Ponte dei Congressi. Ulteriori, futuristiche realizzazioni riguardano una cabinovia sul Tevere.
Durante il cammino Magliana non finisce di sorprenderci. L’ansa fluviale di Pian Due Torri, popolata dall’epoca repubblicana, riserva antiche testimonianze che in qualsiasi città del mondo sarebbero l’orgoglio di un quartiere ma a Roma – città forse troppo ricca di tesori per apprezzarli tutti – vengono colpevolmente ignorate da gran parte della cittadinanza. Maestosa, austera, quasi intatta, la duecentesca Torre del Giudizio ci accoglie in via Teodora, altra sorpresa del quartiere da cui si snoda un antico borghetto che ci conduce in un altro mondo. Nata su un sepolcro romano circolare, datata I secolo d.C., insieme ad analoga opera sulla riva opposta aveva funzione di vedetta e di dogana da cui il toponimo “Due Torri”. Il monumento è attualmente occupato da un privato e circondato da una cancellata abusiva. Per il manufatto si attende da anni il vincolo di interesse storico-artistico della soprintendenza archeologica come “caratteristica dell’organizzazione difensiva dell’Agro romano verso il mare”.
Ė piacevole la passeggiata lungo l’insediamento spontaneo del primo Novecento; di tanto in tanto rimuovi l’idea della Magliana della Banda, del Canaro, dei palazzoni asfittici sotto l’argine fluviale. Ti rapisce la spontaneità, la varietà delle casupole color pastello, ti immergi nella pace del borgo antico, sebbene oggi in disarmo.
Ogni abitante si è organizzato in proprio con l’immancabile orto, il garage, il gazebo all’ombra, il pergolato, il pollaio o, addirittura il laboratorio artigiano.
Non mancano qua e là, nell’aggraziato caos del borghetto, angoli di degrado: i ruderi malmessi, i capannoni abbandonati, i cumuli di rifiuti, la casa-roulotte dello sbandato di turno ma questo non toglie fascino all’ambiente.
Ci stiamo avvicinando alle garbate forme della chiesina di Santa Passera ma la nostra attenzione è catturata dalla serie di affreschi sulle mura consunte delle case abbandonate. Murales che propongono immagini inquietanti, una sorta di rivolta del mondo animale: orsi, gorilla, lupi poi scheletri umani avvinghiati, la cui visione non è mitigata dal dolce volto della Gioconda o dalla Venere cieca, senza pupille. Passera, un nome derivato da una distorsione, una santa che non esiste. I quattro veri titolari di questa chiesina sono in realtà Potenziana, Prassede, Abba Ciro, Giovanni Alessandrino.
Narrare la storia, descrivere le architetture, gli interni e tutto il resto richiederebbe un’altra visita, così come per la nuova parrocchia del Santo Volto, a cui Santa Passera è stata annessa. Architetture religiose dense di significati civili, per non dire profani. La chiesa del XIII secolo è la perfetta metafora della Magliana: come i palazzoni realizzati sotto il livello del Tevere, questo interessante edificio consta di due elementi sovrapposti. Ci sono una chiesa superiore e una inferiore più una cripta ipogea che probabilmente conservava le spoglie dei martiri egiziani Ciro e Giovanni. Non la visitiamo perché chiusa. Qui le messe si celebrano soltanto la domenica alle 10 e 30 ma sicuramente chi c’è stato ne ricorda i commoventi affreschi, resistenti alle insidie del tempo e alle piene del fiume. Oltre al culto delle giovani patrizie romane Pudenziana e Prassede, martiri per aver convertito i pagani al cristianesimo, Santa Passera preserva nel suo nucleo più antico il piccolo oratorio che Teodora, altra nobildonna romana, intitolò alle due sorelle.
Anche la chiesa del Santo Volto, grande opera di Piero Sartogo e Nathalie Grenon completata nel 2006, individuata quale esempio di “Nuovo Rinascimento architettonico”, serba in sé tutti gli elementi del “Genius loci” di Magliana. Il sagrato a forma di v, che fa convergere i due corpi edilizi verso la Croce sospesa sullo sfondo, è un punto di fuga, un fuoco a cui tendere, una meta ideale. Per i credenti la meta della fede, per tutti il luogo di accoglienza nel quartiere. Per dirla con il grande architetto “La città è disegnata dai vuoti, dalle piazze, dalle vie, non dai pieni; vive delle sue cavità. La v del sagrato, che parte dalla strada e arriva fino alla Croce, è un vettore in tutti i sensi”.
Un richiamo, un traguardo in uno spazio prima avversato dal resto della città, dall’altra Roma che guardava a Magliana come a un corpo estraneo e ora viene accolta, così come sono stati accolti nordafricani, asiatici, sudamericani, il 14 per cento dei residenti. Non sappiamo bene se ancora tollerati o saggiamente integrati. L’imponenza dell’edificio, il bagliore del bianco travertino, le forme ardite, il dialogo con le preesistenze del quartiere concludono la nostra passeggiata ricca di scoperte ma non esauriscono la nostra curiosità. Lo stereotipo Magliana/Banda, indipendentemente dall’appartenenza dei componenti – che di nati o residenti in loco ne contava una minima parte – ha agito, fatte le debite mutazioni, con la stessa potenza con cui si è imposto il nome di Santa Passera, la santa che non esiste. Dalla realtà alla fiction e viceversa. Entrambi assurti a simbolo, nel bene e nel male, di un quartiere che attraverso l’immaginario collettivo ha dovuto reinventarsi, attraverso la sua vitalissima comunità.
[Giuseppina Granito]
Meraviglia per la memoria di una stupefacente “passeggiata nella quasi contemporaneità” brava grazie Stefania
Abito a Magliana da 19 anni. Provenivo da San Giovanni. Posso dire che a Magliana ci si sente accolti. Basta parlare con il cuore e anche i più pittoreschi tra i suoi abitanti ti aprono il loro. Un bell’articolo. Manca la storia della nascita di San Gregorio Magno e altre due realtà associative importanti come Retake Magliana e gli Squilibrati che tanto fanno in questo quartiere. Grazie
Complimenti per l’articolo . Manca ancora una cosa molto interessante. L antico approdo romano in blocchi tufacei che e possibile vedere alle spese del grande albero di gelsi che avete immortalato.