Il marmista di Monte dei Cocci nel Rione Testaccio

Oggi vi voglio raccontare una storia veramente incredibile. Alcuni anni fa – era il 2016 – durante una passeggiata con un’amica nel rione Testaccio, intorno al Monte dei Cocci, le racconto che il mio nonno paterno, Giano, aveva il laboratorio in una delle grotte della collinetta artificiale, anche se non sapevo esattamente quale fosse.

Vecchi edifici intorno al Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Vecchi edifici intorno al Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Costeggiando il monte, incontriamo un bizzarro artista che, in maniera non proprio legale, aveva realizzato il suo atelier/magazzino in una delle grotte e ci mettiamo a chiacchierare. Raccontandogli la storia di mio nonno, ci dice che la strumentazione del vecchio laboratorio è ancora lì al piano superiore della grotta in cui lui ha il magazzino.

Gli chiediamo di poterla visitare e lui ci fa entrare, invitandoci a fare attenzione perché le scalette che portano al piano superiore sono molto sconnesse. Incredibile, il laboratorio è ancora lì, con i macchinari, gli attrezzi, le lastre di marmo, sommersi dalla polvere dei decenni. Con la torcia del telefono, illuminiamo l’ambiente e scattiamo qualche foto. L’emozione è fortissima.

Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Quando torno a casa faccio una breve ricerca su Internet e scopro che i Polidori come marmisti sono insediati li almeno dagli anni Trenta del Novecento.

Nelle varie guide e annuari che registrano le attività commerciali su Roma in quegli anni trovo i Fratelli Polidori in via di Monte Testaccio e un’esposizione di martelli elettrici, perforatrici, lucidatori e stuccatori in un locale poco distante, in via Mastro Giorgio, dal curioso nome greco “Thauma“.

Il mio bisnonno con i suoi fratelli avevano infatti avviato una fiorente attività con lo stesso nome nella loro città natale a Cagli, nelle Marche, inventando e brevettando diversi strumenti proprio per la lavorazione del marmo. Le loro strumentazioni venivano spedite in tutta Europa e nel Nord Africa.

Lo stabilimento di Cagli [Foto ottenuta per gentile concessione di Fabrizio Polidori]
Lo stabilimento di Cagli [Foto ottenuta per gentile concessione di Fabrizio Polidori]
Decido quindi di contattare mio padre Ennio per riferirgli del fortunato incontro e lui comincia a raccontare…

Erano gli anni Sessanta, avevo dodici anni e lì c’era il laboratorio di mio padre che stava al piano superiore. Lì produceva pompe dell’olio commestibile, invenzione del nonno, che poi lui ha installato su  tutti i negozi di vini e oli e alimentari di Roma negli anni Sessanta e primi anni Settanta. Erano dei fusti di acciaio inossidabile all’interno di un bancone di marmo da cui emergeva una pompa simile a un cambio di una macchina di tanti anni fa con una canna ricurva, e ogni fusto conteneva un certo tipo di olio di vari prezzi.

Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]

Oltre questo aveva l’officina meccanica con la quale costruiva le pompe, i fusti in acciaio inossidabile e  poi la parte prettamente relativa alle opere in marmo dove realizzava pavimentazioni, rivestimenti e arredi per macellerie a Trastevere, Testaccio, Prati.  Lui ha lavorato per tantissime macellerie, producendo lastre a macchia aperta, praticamente due lastre tagliate dallo stesso blocco e poi collocate simmetricamente.

Vecchia targa di una macelleria equina a Testaccio [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Vecchia targa di una macelleria equina a Testaccio [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Poi realizzava anche dei banconi enormi con volute tipo finestre rinascimentali, coinvolgendo gli scalpellini che aveva a bottega.  Realizzava anche i lavelli da cucina, tutti in marmo bianco di Carrara. Costruiva delle scale a giorno che erano fatte prendendo il Carrara, tagliato controfalda che era molto più resistente, e quindi la pedata e il sottogrado erano messi a giorno così, infilati nel muro senza alcuna struttura in cemento armato o in ferro e ancora stanno in piedi.

Nel laboratorio, a Monte Testaccio, aveva la parte dell’officina, con il tornio per i metalli, la fucina per la fusione dei vari pezzi in alluminio e poi aveva le saldatrici per i fusti con le parti in acciaio, le piegatrici per modellare i tubi, delle mole per lucidare le parti in acciaio, le mole abrasive, molti macchinari desueti, dei primi del Novecento.

Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]

E poi, dove lavorava in marmo, aveva una grande tagliatrice con una ruota gigantesca ad acqua e un piano mobile. Poi c’era il deposito dei rimasugli di marmo, dei resti della lavorazione. Ricordo che lui realizzava anche delle pavimentazioni, il bollettonato, costituito da tanti scarti di marmo assemblati. Se ne vedono spesso nelle palazzine degli anni Cinquanta e Sessanta oppure in qualche negozio o in qualche appartamento.

Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Resti della bottega del marmista Giano [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]

Il nonno lì aveva anche l’ufficio. In fondo ai grottoni, uno grande per l’officina meccanica, un altro con due macchine per lucidare il marmo e la trancia per rompere a pezzettini di rimasugli del delle lavorazioni e fare questi pavimenti, poi c’era un deposito e in fondo a questo grottone  che univa tutti questi altri insieme c’era il piccolo ufficio.

Il marmo lo prendeva a Carrara, andava su, sceglieva i blocchi, lì c’erano le segherie, prendeva lastre da tre centimetri e il camion gliele portava e le scaricava al laboratorio sotto il Monte dei Cocci. Almeno fino al 1972-1973. Prima, quando c’era ancora il padre, aveva tanti operai, sette otto operai che lavoravano, tra cui gli scalpellini che decoravano i banconi dei macellai, poi piano piano il lavoro è finito e lui è rimasto a lavorare da solo ancora per un paio d’anni e alla fine ha chiuso.”

L’artista ci conduce al piano di sotto e le emozioni non sono finite. Ci fa vedere infatti una serie di botti gigantesche incastonate nel muro.

Grandi botti in uno dei grottoni del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Grandi botti in uno dei grottoni del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
In alcune di esse sono ancora presenti gli sportellini nella parte inferiore.

Sportellino di botte in uno dei grottoni del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Sportellino di botte in uno dei grottoni del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Su una botte si conserva ancora l’indicazione che il vino fu travasato il 17 febbraio 1962.

Annotazioni su una botte in uno dei grottoni del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Annotazioni su una botte in uno dei grottoni del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Mio padre continua il suo racconto…

Sotto di lui c’era il vinaio. Il laboratorio di marmi e il vinaio non erano comunicanti come ora. A sinistra  c’era il bottaio, che produceva botti per il vino di tutte le dimensioni… A fianco c’era un fabbro bravissimo, si chiamava Menotti, faceva anche le sculture in acciaio inossidabile per gli scultori, era molto molto bravo, lavorava anche il ferro battuto.

Dall’altro lato, guardando l’ingresso a sinistra, c’era un altro artigiano, lo chiamavamo Er Cavallaro perché ogni tanto aveva dei cavalli, ma lui faceva il sapone e poi trasportava tutte le interiora degli animali, le metteva dentro dei contenitori a macerare. E poi, non ricordo bene, c’era qualche falegname e qualche restauratore. Tutte le botteghe nel perimetro del Monte erano di artigiani. Poi c’era un deposito di agrumi che stava proprio nella stradina che scende alla base del Monte.

Qui l’estate si stava benissimo al fresco ma l’inverno faceva un freddo cane. Poi c’erano dei lucernari, d’inverno ci pioveva dentro e faceva un freddo terribile. Ricordo che da una porticina sul retro si poteva salire fino alla cima del Monte dei Cocci dove c’era e c’e’ ancora la croce.

La croce del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
La croce del Monte dei Cocci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]

[a cura di Priscilla Polidori]

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