Minitrekking del 15 settembre 2019. L’appuntamento è in uno dei luoghi romani più carichi di storia: Porta Maggiore, a ridosso del centro, direzione Roma est. Ė compresa tra le Mura Aureliane, che al momento della loro realizzazione tra il 270 e il 275 d.C. la inglobarono, racchiude il punto di confluenza di otto acquedotti, espressione di tecnica ingegneristica e sapienza costruttiva.
Il nostro gruppo è nutrito, siamo diciotto, un numero di tutto rispetto in un sabato mattina dal sapore ancora estivo, che inviterebbe a godere di un ultimo scampolo di vacanza. Per raggiungere il luogo d’incontro ci si confonde tra l’intrico dei binari, si perde il senso di marcia dietro ai semafori scoordinati, si sfiorano auto in corsa, si raggiungono a fatica le strisce pedonali, si annusa con curiosità l’odore penetrante di spezie, frutto della cucina dei “nuovi italiani” che qui rappresentano una bella fetta di popolazione. Il colpo d’occhio sull’antico complesso è strepitoso: sembra che in un sapiente gioco di incastro, l’imponenza delle Mura e l’eleganza della porta si misurino nella capacità di attirare lo sguardo, in una competizione dell’una sulle altre per la supremazia.
Realizzata nel 52 d.C. Porta Maggiore, in opera quadrata di travertino, consentiva all’acquedotto Claudio di scavalcare le vie Praenestina e Labicana (attuale Casilina) che si biforcavano dall’unica strada che aveva origine da Porta Esquilina. Al centro di un articolato svincolo di traffico veicolare, ferroviario, tramviario, l’impareggiabile complesso, più che a punto di interesse storico-turistico è oggi assimilabile a un incidente urbanistico.
Troneggia altero nella convivenza tra antiche consolari e moderne ferrovie, ciondolanti tram urbani e sferraglianti trenini dei “laziali”, anche questi da record. Di 18 carrozze in dotazione 9 sono tra le più longeve della storia tramviaria italiana: le EM 100 e 420 che oscillano dai 78 ai 92 anni.
Nonostante l’imponenza delle mura, che incorporano il maestoso ingresso da est al centro città e rapiscono lo sguardo, siamo continuamente distratti dall’aggressiva circolazione, dal continuo passaggio dei convogli, dai rumori stranianti, dall’intreccio dei binari, affastellati uno accanto all’altro come la variegata umanità che popola gli spelacchiati giardinetti circostanti.
Ad Spem Veterem, questo l’antico nome della zona dovuto al vicino tempio che nel 477 a.C. fu dedicato alla dea Speranza. Oggi l’area è denominata Prenestino-Labicano e preserva pregevoli monumenti funebri, mausolei, colombari, ipogei. Le due consolari ricalcano gli antichi tracciati e definiscono un confine che vede racchiusi secoli di storia e periodi più recenti, ma non meno importanti testimonianze. Come ogni imponente realizzazione che si rispetti, Porta Maggiore subì, nei secoli, numerosi rifacimenti: con Vespasiano nel 71 e Tito nell’82, poi le fortificazioni dell’imperatore Onorio nel 420 e la chiusura nel 537-538 per respingere l’assalto dei Goti, fino alle importanti opere di restauro del 1838, volute da papa Gregorio XVI, che demolì le opere di Onorio reputate asimmetriche e prive di equilibrio, ripristinando l’originario assetto aureliano.
Tale restyling non fu privo di sorprese. Da allora insieme alle mura, si può ammirare il celebrato sepolcro di Eurisace, originale opera inclusa tra le due arcate della porta, venuta alla luce per gli scavi voluti dal pontefice. Risalente al 30 a.C., il sepolcro presenta nove elementi cilindrici cavi nel corpo superiore in travertino. Il rilievo marmoreo narra episodi di vita e lavoro: il grano pesato, il pane impastato, la molitura e la setacciatura della farina, la preparazione della pasta e l’infornata. L’iscrizione sul retro richiama la professione del pistor (fornaio), del redemptor (appaltatore per importanti istituzioni dell’epoca) e dell’apparitor (ufficiale subalterno di un magistrato o di un sacerdote) Eurisace, sepolto insieme alla moglie Atistia, i cui resti si trovano ora al Museo nazionale romano in un’urna a forma di madia per impastare il pane. Il personaggio in toga che controlla gli schiavi è lo stesso Eurisace, liberto che probabilmente si arricchì durante le guerre civili. Se il degrado e il disinteresse non avessero il sopravvento potremmo ammirare il basolato di quello storico cammino occultato da incolte sterpaglie, con ancora visibili i grandi solchi lasciati dal passaggio dei carri.
Voltando lo sguardo la nostra visita si arricchisce di sorprese: archeologia classica e archeologia industriale si rincorrono, non senza accenni al contemporaneo. Da Porta Maggiore agli insediamenti industriali del primo Novecento con il vicino tempio di Minerva Medica, l’antica chiesa di Santa Bibiana e la Basilica sotterranea al civico 17 di via Prenestina. Datata intorno al I secolo dell’Impero, incerta è la sua natura: santuario di culto neopitagorico, basilica funeraria o ninfeo. Profonda 7 metri, è dotata di un vestibolo e grande aula basilicale, con mosaici in bianconero e la volta decorata con stucchi colorati che raffigurano una baccante a cavallo di una pantera e un erote con anfora. E ancora, figure ornamentali, ambienti, volte, mosaici, stucchi – tra cui emerge la drammatica scena del suicidio di Saffo – oggetti votivi e ritratti, opere e reperti che di certo meritano di essere ammirati.
Alle preesistenze monumentali fa da contraltare il moderno palazzo degli uffici del Ministero del Tesoro, realizzato tra il 1967 e il 1970 dagli architetti Pier Maria Lugli e Alessandra Montenero che impongono un linguaggio assolutamente moderno e funzionalista recuperando il rapporto con l’archeologia attraverso le pareti specchiate dell’edificio, che cattura le immagini in un dialogo antico/moderno.
Moderna per i suoi tempi fu sicuramente la Stazione creata dalla società Pio Latina, consorzio nato per istituire la prima linea ferroviaria completata nel 1856 che collegava Roma a Frascati per proseguire poi, attraverso una diramazione, alla prima fermata di Ciampino verso Albano, Velletri e Ceprano; qui si legava alla ferrovia napoletana. Dal 1846, anno della sua elezione al soglio pontificio, papa Pio IX dette grande impulso ai viaggi in treno. Una delle destinazioni doveva essere Bologna, città di rilievo tra le terre papaline, da raggiungere attraverso la Roma-Ancona. Poi i collegamenti nel Lazio, di cui oggi osserviamo la malinconica testimonianza davanti a un cancello chiuso in piazza Porta Maggiore, che racchiude un’area ferroviaria che potrebbe diventare una risorsa per la città.
Il nostro cammino prosegue sulla via Prenestina, così chiamata perché conduceva all’antica Praeneste, oggi Palestrina, che nel primo tratto era nota come Gabina perché portava all’antica città di Gabii di cui rimangono i resti a circa 18 chilometri da Roma. Passati i fasti imperiali, superate le orde barbariche, sconfitto il secolare abbandono, alla vigilia dell’unità d’Italia l’area oggi nota come Prenestino-Labicano era a vocazione interamente agricola, con casali e qualche villa, attraversata per intero dal vicolo del Pigneto poi assurto a via, fino al fosso della Marranella il cui nome deriva dal fundus o ager maranus.
La tappa successiva, non senza altre curiosità – come il civico 42 con ben 2397 appartamenti e altrettanti citofoni con numeri di codice al posto dei cognomi – ci conduce in un punto nodale, piazza Caballini, centro dei primi stabilimenti industriali della zona. Qui dagli anni Venti del secolo scorso, grazie al favorevole regime dei dazi, arrivano numerosi insediamenti, santificati da spazi per la devozione come l’edicola della Madonna del Divino Amore, a cui si chiede la protezione “per i tramvieri e le loro famiglie” che con le case in cooperativa costituirono i primi nuclei residenziali della zona.
Le industrie ebbero un influsso determinante sul futuro sviluppo del quartiere. Le Fabbriche Riunite degli Agricoltori Italiani (FRAI) poi divenute Montecatini, il pastificio Pantanella, oggi ristrutturato e riconvertito, la ex Gondrand di cui ammiriamo ancor oggi l’antica sede, la farmaceutica Serono, il deposito ATAC erede dell’antico stabilimento di costruzione delle antiche tramvie, un centro raccolta Ama all’avanguardia e soprattutto la società della Seta artificiale di Padova, divenuta nel 1939 Snia-Viscosa, cittadella del lavoro con 2500 operai per cui fu istituita una apposita linea tramviaria che indirizzò lo sviluppo urbanistico di via Prenestina.
Lo stabilimento disponeva di asilo interno, dormitorio per fuori sede, mensa, refettorio, campo di calcio e palestra, corsi scolastici e formativi. Nonostante questa utopia anticipatrice del sogno “olivettiano”, le condizioni di lavoro erano critiche per ritmi di lavoro, materiali nocivi e difficoltà economiche che imposero la chiusura dello stabilimento nel 1954. Oggi la Snia è presente come testimonianza di archeologia industriale – individuata dalla sovrintendenza capitolina – e come miracolo ambientale, per un provvidenziale laghetto spontaneo che ha bloccato sul nascere gli scavi di un supermercato contestato da tutti.
Dopo aver apprezzato l’imponenza delle Mura Aureliane e di Porta Maggiore, i nostri passi ci portano verso una moderna e altrettanto monumentale opera: la tangenziale Est, piloni e viadotti che si intersecano per 12 chilometri, pista poco ideale per il congestionato traffico romano che collega San Giovanni al Salario-Nomentano passando per San Lorenzo e la Tiburtina.
Lo snodo di piazza Caballini è forse il punto più spettacolare della innaturale escrescenza del manto stradale. L’opera, frutto del piano regolatore del 1962 che prevedeva una città per cinque milioni di persone, è un progetto dell’ufficio tecnico della Finsider, società di costruzioni metalliche. Quella che nell’immaginario collettivo è diventata la “strada di Fantozzi” è dagli anni Settanta l’indiscusso simbolo, il confine materiale e sociale di una Roma diversa da quella turistica, piccolo borghese, della ZTL. Ieri marginale, oggi “gentrificata”, Roma Est è al centro dell’attenzione per il suo variegato e multiforme popolo. “Roma più Roma” si potrebbe definire, perché è un luogo al quadrato, popolato da vecchi e nuovi residenti, che si gonfia la sera per afflosciarsi al mattino ma mantiene simboli di una forza evocativa all’ennesima potenza, di cui l’intricato e intrigante viadotto è il più evidente emblema, claustrofobica immagine di canyon metropolitano.
Se non ne conoscessimo la storia, potremmo pensare al Prenestino come a un quartiere costruito intorno alla tangenziale, successivo alla tangenziale e non viceversa, tanto ci sembrano compressi dal mostro di asfalto gli eleganti palazzi primo Novecento, con affaccio compromesso per sempre. Difficile immaginare l’insano innesto di fronte a una popolazione sbigottita e impotente. Prezzo del progresso, non si capisce quale… Eppure entrare nel vivo di quelle stradine, incontrare la multiforme umanità che le popola, trovarsi di fronte a tuniche ondeggianti, turbanti ben assestati, babbucce sfavillanti, casacche multicolori, ci porta in un luogo denso di vita sociale. Italiani del sud e nordafricani, cinesi ed etiopi, indiani e filippini, rumeni, bulgari e tanti ancora.
Un mix di dialetti e lingue, tradizioni, culture, religioni ci guida nella cosiddetta “Banglatown”, dal Pigneto a Torpignattara. E una vivacità edilizia sorprendente. In via Aquila ammiriamo le essenziali ed eleganti linee art déco del vecchio e omonimo cinema, sottratto negli anni a discutibili gestioni – Banda della Magliana, mondo di mezzo – e restituito nell’estate del 2018 ai cittadini.
Sempre nel segno della Settima Arte arriviamo in via Montecuccoli, all’apparenza anonima strada chiusa dalla ferrovia Roma-Napoli, nobilitata perché location di una delle più toccanti scene del capolavoro del neorealismo Roma città aperta, con una indimenticabile Anna Magnani che viene mitragliata dai tedeschi. C’è perfino una disputa tra Roma e Milano per il testo della canzone di Lucio Battisti Pensieri e parole: chi la vorrebbe ambientata qui, chi nel capoluogo meneghino e Mogol viene in soccorso con la sua testimonianza.
Pochi passi e ci troviamo al cospetto del Mausoleo del Torrione, tomba a tumulo in calcestruzzo del I secolo a.C. al II miglio della Prenestina con cella sepolcrale centrale in travertino. Con i suoi 41 metri di diametro è la terza in estensione, dopo il Mausoleo di Augusto e la Mole Adriana. Ignoto il committente, nel tardo medioevo la tomba divenne la cantina della famiglia Ruffini, con accanto una torre e altri manufatti ora spariti. Nel 2010, dopo un accurato restauro il monumento e l’attiguo parco sono stati riaperti al pubblico.
Dal venerato passato al blasonato presente il passo è breve. A pochi passi, ci immergiamo nel cuore del Pigneto, non senza aver apprezzato la facciata in cortina e travertino della parrocchia di San Leone Magno realizzata nel 1950 dall’architetto Giuseppe Zander, ispirata alle chiese del “romanico laziale” con apprezzabili opere all’interno. C’è perfino una chiesa dedicata al fosso che lega come un invisibile filo un punto all’altro del quartiere: è San Barnaba alla Marranella, in piazza dei Geografi. Esaurita l’immersione nel sacro, arriviamo al profano del quartiere “gentrificato” per antonomasia. Ce lo raccontano perfino i murales, riportandoci alle rivolte berlinesi e bolognesi dei muralisti contro l’ideologia del decoro urbano, che trasforma le periferie da focolai di lotta a salotti e incubatori di eventi. Ė il “muralismo=gentrificazione“, palese ribellione impressa su un palazzo, cui fa da contraltare un penoso dormitorio dei tanti invisibili che qui galleggiano.
Proprio da queste parti, all’altezza di via Acqua Bullicante, il fosso della Marranella riceveva le acque delle sorgenti del Bullicame, contenenti emanazioni gassose sulfuree che le facevano ribollire.
Nascosta agli sguardi, sebbene di pregevole fattura, in via Romanello da Forlì 25 c’è Villa Valiani, opera di Giovanni Michelucci stimato architetto del Novecento noto per la stazione di Firenze. Cinque alloggi destinati ad altrettanti fratelli, titolari di un’industria alimentare e gestori del buffet della stazione Termini. La peculiarità della struttura era nella distribuzione non convenzionale dei volumi, nella scala d’ingresso arricchita in facciata da una leggera vetrata, nell’armonioso legame tra la villa e il grande parco.
Alcune memorie del Pigneto sono rappresentate nei celebrati murales, come il busto prorompente di Pier Paolo Pasolini, testimone indiscusso della Roma marginale. Altre sono vive e verdi come il bar Necci, dove il regista-poeta amava sostare con la troupe nelle pause delle riprese di Accattone e Mamma Roma (in realtà l’originario Bar Necci doveva essere nei pressi di quello attuale, poco oltre in Via Fanfulla da Lodi). Gli eleganti villini liberty che incontriamo, appartenenti a blasonate famiglie ribaltano l’idea di periferia negletta, così come il Museo del Giocattolo in via Coronelli.
Il sociale nella nostra passeggiata si palesa con diversi presidi: l’edificio dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia in piazza dei Condottieri, realizzato dall’ufficio tecnico dell’Opera stessa e riconvertito ad asilo nido. Lo stabile – nato su un terreno della famiglia Tavoletti, grandi proprietari terrieri della zona insieme ai Serventi – ha subito modifiche sia in fase costruttiva che in quella di riuso. Ha una forma a L e, sul lato lungo, un rilievo in ceramica di Augusto Ranocchi ingentilisce l’austerità delle facciate, che presentano una significativa connotazione architettonica, a parere di ricercatori della Sapienza Università di Roma. Un importante studio relativo all’Osservatorio sul moderno a Roma ne ha analizzato caratteristiche e trasformazioni, suggerendo all’amministrazione comunale le destinazioni d’uso più opportune.
Sarebbe interessante operare un raffronto con un edificio di stampo avveniristico realizzato nel 2006 in via Isidoro di Carace: vetro e alluminio, contrasto di colori, linee arrotondate e il paradosso di essere la sede, quale edificio all’avanguardia, del locale centro anziani. Frutto del piano di riqualificazione del Pigneto, previsto da una legge del 1992, il centro ha assunto il nome di Casa delle culture e delle generazioni a sottolineare la massima apertura alle esperienze culturali e sociali del territorio.
Un territorio che non finisce mai di stupire grazie all’osmosi tra stili architettonici: dal dignitoso liberty anni Venti ai palazzetti e palazzoni dell’incombente sviluppo edilizio; dal mix di individui, culture, tradizioni, religioni alla cacofonia dei profumi. Dal curry alle lasagne, dall’abbacchio al kebab qui tutto ha uguale dignità.
La sintesi di ciò è rappresentata dalla scuola “Carlo Pisacane“, parte dell’Istituto comprensivo Simonetta Salacone, simbolo dell’integrazione grazie all’indimenticabile dirigente e al corpo docente. Sulla facciata dell’edificio quaranta volti di ragazzi di varie etnie ci sorridono. Rappresentano le venti comunità di allievi che con innovativo metodo didattico, noto oggi con il nome dell’eroe simbolo del Risorgimento, saranno in grado di promuovere il nuovo risorgimento italiano.
Anna Magnani e i fratelli Citti, Mario Monicelli e Pier Paolo Pasolini – immortalati da Diavù sulla facciata dello storico cinema Impero – avrebbero sicuramente saputo leggere e interpretare alla perfezione la vicenda umana dei nuovi italiani che popolano queste parti. E avrebbero con innata maestria saputo cogliere il profondo rapporto con i vecchi, storici residenti, che al di là degli stereotipi e di una narrazione falsata da pregiudizi, sono piacevolmente sorpresi dalla freschezza, dalla novità, dalla positività impressa dagli italiani di “seconda generazione”. Ragazzi cui non difetta lo spirito di appartenenza, giovani che con innato candore confessano di sentirsi al 50 per cento italiani, al 50 bangla, al 100 per cento “Torpigna”.
[Giuseppina Granito]
Minitrekking svolto il 15 settembre 2019