Donne (in Bangladesh): quando un viaggio all’estero diventa esperienza umana

Premessa: ho abitato quasi due mesi a Dhaka, la capitale del Bangladesh e città di residenza della famiglia del mio ex marito. Da queste parole risulta già ovvio che non si è trattato solo di un viaggio turistico ma di una immersione totale nella cultura di un’altra civiltà, quella dell’Islam.  Ma mentre certe esperienze sono impensabili se non si vive in una famiglia locale, altre sono condivisibili anche per i viaggiatori più curiosi a patto che non si limitino ai monumenti ma cerchino contatti anche con gli uomini e la loro vita multiforme. Basta tenere desta la curiosità, aprire bene gli occhi e, se possibile, avere una guida del luogo.

Traghetto su un ramo secondario del Buriganga. Dintorni di Dhaka, aprile 2000 [Foto: Elena Tredici, CC BY NC SA]
Traghetto su un ramo secondario del Buriganga. Dintorni di Dhaka, aprile 2000 [Foto: Elena Tredici, CC BY NC SA]
 Aspettiamo l’arrivo del traghetto che ci condurrà lungo il corso del Buriganga. La sala di aspetto è poco più di una baracca sull’argine ma ricca di sedili, rigorosamente suddivisi in un settore femminile e in uno maschile. Nessuna barriera fisica ma la forza potente della consuetudine.

Senza parlare mi divido da mio marito e mi seggo tra le donne con mia figlia scegliendo sedili che mi permettano la rassicurante vista di lui. Solo allora, ormai abituata a sentirmi catalizzatrice di sguardi, ricambio la curiosità di coloro che mi circondano.

Sono perlopiù donne povere, nei loro sari di cotone, i visi segnati, ma sempre quella grazia e quella compostezza, anch’essa consuetudinaria, fatta di una economia di gesti che ai miei occhi diventa inarrivabile eleganza.

Mi attrae una donna in particolare proprio perché impercettibilmente più scomposta, una ciocca sfuggente dalla piega del sari che copre malamente i capelli. Ha un bambino in grembo, non così piccolo da contenerlo per intero ma non così grande da stare di là, con gli uomini. È difficile per me dare un’età a corpi provati fin dalla nascita dalla malnutrizione, gli attribuisco sei o sette anni. Poggia la testa sulle gambe della madre, il resto del corpo abbandonato sulla panca di legno. Ha gli occhi chiusi e trema. Ci sono almeno trentacinque gradi dentro la stanza, è ovvio che il bambino stia male. La rigida, innaturale immobilità del corpo unita al tremito continuo delle labbra mi fanno pensare a qualcosa di più grave della malattia, mi suscitano l’idea disperante di una vera e propria agonia.

Anche Sofia nota il bambino, me lo indica, mi chiede se dorme o è malato cercando in me rassicurazioni che non so darle. Anzi, mi alzo di scatto e mi avvicino con l’idea di sentirgli la fronte con la mano o, meglio, con le labbra, per saggiare la temperatura come faccio spesso con mia figlia. È un gesto spontaneo, naturale, non pensato. Mi blocco però prima di poggiare la mano razionalizzando improvvisamente i quattro anni di Sofia e le terribili malattie che circolano nel Paese dalle quali solo in parte l’ho protetta con le vaccinazioni. Non devo toccare il bambino, non posso più farlo. E rimango per qualche istante sola, in piedi, in mezzo alle donne immobili che percepisco curiose. Perché adesso non posso neanche sedermi di nuovo, non posso non fare qualcosa. Mi volto verso mio marito, l’unico che può aiutarmi a spiegare, a capire. Ma non serve. Le donne intorno a me hanno capito. Si accostano al bimbo, lo toccano, chiedono qualcosa alla madre. La giovane donna spalanca una bocca già quasi priva di denti ed emette versi gutturali, vagamente somiglianti a parole, si tocca la gola e ancora emette suoni sconnessi, poi tocca il bimbo, lo carezza e ancora il tono dei suoi mugolii cresce fino a sembrarmi un disperato latrato. Ma le donne hanno interpretato i mozziconi di parole, hanno percepito suoni conosciuti tra i fischi e i mugolii. Tra loro la più elegante mi parla, sicuramente ha studiato perché mi spiega in inglese che la muta sta portando il figlio in ospedale.

Il bambino apre ancor più la bocca e geme sommessamente. Mi rimetto seduta con gli occhi pieni di lacrime. Guardo le donne intorno a me e mi accorgo che anch’esse hanno gli occhi lucidi come i miei. E allora, attendendo, ci guardiamo in silenzio, mentre la muta mugola una ninna nanna incomprensibile.

[Elena Tredici]

Questa cronaca è stata pubblicata nel volume Incontrarsi, racconti di donne migranti e native, Roma: Ediesse Edizioni, 2012.

P.S. : mia figlia è adesso un medico pediatra.

 

One comment

  1. Viaggiare in paesi lontani ci mette a contatto con realtà impensabili. Questa è una storia che tocca il cuore profondamente

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.