Se vi trovate a passeggiare nel Rione Monti, sul colle Esquilino, non mancate di visitare la basilica rinascimentale di San Pietro in Vincoli, uno dei luoghi della cristianità più importanti di Roma, arcinoto per la presenza del celebratissimo Mosè di Michelangelo, ma ricco di altri capolavori degni di essere conosciuti e osservati da vicino.
Accediamo alla Basilica cardinalizia da piazza San Pietro in Vincoli. Di fronte a noi si apre un portico a cinque archi in stile rinascimentale sul quale campeggia lo stemma dei Della Rovere, famiglia ligure nobilitatasi che diede a Roma ben due pontefici, Sisto IV (1414-1484) e Giulio II (1443-1513), cui si deve anche la costruzione del palazzo cardinalizio e del convento che oggi ospita la Facoltà di Ingegneria della Sapienza Università di Roma.
Dovete sapere che la basilica è anche nota come Basilica Eudossiana. Facciamo un passo indietro nella storia, agli inizi del V secolo d.C.: l’ateniese Atenaide, di famiglia pagana, alla morte del padre si recò a Costantinopoli per reclamare giustizia sull’iniqua ripartizione dell’eredità con i fratelli. Grazie alla sua bellezza, eleganza ed eloquenza, fu fatta sposare all’imperatore Teodosio II (imperatore d’Oriente dal 408 al 450) dopo essersi convertita al Cristianesimo e aver cambiato il nome in Elia Eudocia. L’imperatrice viaggiò in Terrasanta e, secondo la tradizione, nel 442 sarebbe stata omaggiata dal patriarca di Gerusalemme Giovenale delle catene che avrebbero avvinto S. Pietro durante la prigionia gerosolimitana ordinata da Erode Agrippa. Gli Atti degli Apostoli (12:1-11) riportano infatti che l’Apostolo fu arrestato nei giorni della Pasqua ebraica ma, la sera prima del processo, un angelo inviato da Dio venne a liberarlo sciogliendo le catene. L’imperatrice chiese alla figlia Eudossia, moglie di Valentiniano III (imperatore d’Occidente dal 425 al 455) di portare le catene a Roma (secondo altre fonti gliele inviò), costei le mostrò a papa Leone I (secondo altre fonti a papa Sisto III), il quale – secondo la leggenda – le accostò alle catene di Pietro utilizzate nel Carcere Marmertino dove l’apostolo fu fatto imprigionare da Nerone: miracolo, le due catene si fusero e così venne costruita una basilica paleocristiana con il nome di titulus apostolurum, sorta su preesistenze più antiche.
La basilica rinascimentale si data all’epoca di Giulio II. Entrando, notiamo subito le tre navate con l’abside fuori asse perché eretta sfruttando gli spazi dell’edificio di epoca romana. Venti colonne doriche separano la navata centrale dalle laterali: sono in marmo greco Imezio, provenienti forse dal vicino Portico di Livia, tra il Clivus Suburanus e le Terme di Traiano.
Ci rechiamo subito in direzione dell’altare per osservare il reliquiario delle catene, chiuso da due portelle in bronzo dorato (opera di Giovanni Matteo Foppa, detto Caradosso, 1477) che custodiscono l’urna con i vinculi (opera di Andrea Busiri Vici, 1856). Ai lati del reliquiario, sono collocate due statue raffiguranti San Pietro e l’Angelo liberatore. Osserviamo attentamente le catene: quella proveniente da Gerusalemme ha undici anelli, più piccoli, quella romana 23 anelli con un collare. Enorme era la valenza simbolica della reliquia che poteva anche significare il desiderio di avvicinamento tra gli imperi d’Oriente e d’Occidente in un’epoca in cui Roma stava vivendo una situazione sempre più critica.
Se ci guardiamo intorno, possiamo notare diverse opere che si ispirano al miracolo dei vincoli, a partire dagli affreschi dell’abside (Jacopo Coppi, 1573) che raffigurano La liberazione di Pietro dal carcere di Gerusalemme per opera dell’Angelo, Eudocia che riceve le catene da Giovenale, Eudossia che mostra le catene al papa.
L’affresco nella volta a botte ribassata (Giovanni Battista Parodi, 1706) ricorda invece un avvenimento accaduto nel 969 quando un nobile al seguito dell’imperatore I Ottone di Sassonia venne esorcizzato dal demonio grazie al contatto con le catene.
E non dimentichiamo la cripta che, secondo la tradizione, fu la prima prigione di Pietro prima del suo trasferimento nel Carcere Mamertino. Al suo interno si conserva il sarcofago dei sette fratelli maccabei, ebrei martirizzati nel II secolo a.C. per essersi ribellati al seleucide Antioco IV Epifane, proveniente con ogni probabilità da Antiochia.
Sulla destra, imponente, si staglia il monumento funerario di Giulio II, capolavoro indiscusso di Michelangelo Buonarroti. Papa Giulio II glielo commissionò nel 1505, ma l’opera venne terminata nel 1545, ben 32 anni dopo la sua morte. All’inizio era stata pensata come una struttura veramente complessa, che con quaranta statue doveva essere collocata all’interno della Basilica di San Pietro. Per motivi diversi (l’alto costo della nuova basilica di San Pietro e le spese militari prima, la morte del papa e gli innumerevoli impegni di Michelangelo, oltre alle sue sempre più esose richieste poi), il progetto venne notevolmente ridimensionato: il monumento, fortemente voluto dai duchi di Urbino, eredi del papa, venne costruito nella chiesa di patronato dei Della Rovere e ridimensionato nel numero di statue che passò a sette. Era talmente grande che comunque l’antica sagrestia venne ridotta per fargli spazio.
Osserviamo il monumento da vicino: papa Giulio II riposa in alto, sdraiato su un fianco, come nei sarcofagi etruschi. Le altre due statue attribuite alla mano del sommo scultore sono Rachele (a destra del Mosè) e Lia (a sinistra del Mosè). La prima, con le mani giunte, raffigura la vita contemplativa, la seconda (con la fiaccola) la vita attiva, perfetta sintesi di Giulio II, uomo di fede e papa guerriero.
Massiccio al centro, si impone Mosè. La leggenda dice che Michelangelo dopo averlo scolpito gli chiese: Perché non parli? Osservandolo con attenzione, par proprio che il profeta che diede agli Ebrei i dieci comandamenti presi sul Monte Sinai voglia comunicare qualcosa, forse la sua indignazione per il comportamento riprovevole del suo popolo, che ha preferito danzare attorno al vitello d’oro.
Sigmund Freud, il fondatore della psicanalisi moderna, passò alcune settimane di fronte al Mosè nel 1912, osservandolo, studiandolo, disegnandolo. Era arrivato alla conclusione che Michelangelo lo avesse ritratto nel momento in cui il profeta riusciva a gestire l’ira: dall’iniziale furore, il patriarca riesce a ritrovare l’autocontrollo di sé. Consapevole della missione divina, non distrugge le tavole, ma in extremis le salva, la saggezza prevale sull’ira.
Alcuni studi hanno dimostrato che Michelangelo modificò la statua in corso d’opera, ruotandone lo sguardo, Per ottenere la torsione fu costretto ad abbassare la seduta di ben sette centimetri, a rimpicciolire il ginocchio per poter arretrare la gamba, a girare la barba verso destra per mancanza di spazio sul lato opposto, a ricavare il naso dalla guancia sinistra. Perché fece questo quest’intervento 25 anni dopo averla creata? C’è chi afferma che lo fece affinché il patriarca distogliesse lo sguardo dalle catene, chi invece ritiene che la torsione fu una soluzione adottata per sanare una rottura del marmo. E le corna che spuntano sopra i capelli? Sarebbero dovuti essere dei raggi del sole, pare che invece siano il risultato di un’interpretazione errata degli antichi testi ebraici da parte del maestro.
Prima di lasciare la chiesa, non tralasciate però di soffermarvi di fronte ad altre opere veramente degne di nota.
Nella navata sinistra, l’icona musiva di S. Sebastiano, che lo vede inusualmente ritratto anziano, con la barba, vestito alla bizantina. Era stata realizzata quale voto contro la peste del 680.
Ancora in tema di epidemie, degno di nota l’affresco raffigurante la processione propiziatoria di Sisto IV per la fine della peste del 1476, realizzata con ogni probabilità dalla bottega di Antoniazzo Romano a sinistra della parete d’ingresso.
A poca distanza, vi invitiamo a osservare la tomba del cardinale Niccolò Cusano (1401-1464), realizzata da Andrea Bregno nel 1465: a sinistra il cardinale omaggia S. Pietro, sulla destra l’angelo liberatore. Sotto, l’aragosta, elemento dello stemma del cardinale.
In alto sulla parete destra potete osservare la trave, divisa in due pezzi, della catena centrale risalente ai lavori di ristrutturazione della basilica del 1465, eseguiti proprio a spese del cadinale Cusano. Sulla trave si leggono il nome e la data.
Un’altra tomba degna di nota, tra le alte, è quella dei pittori fiorentini Antonio e Piero del Pollaiolo, sormontati da Pietro benedicente (Luigi Capponi, 1498-1510).
[Maria Teresa Natale]