Il Semenzaio di San Sisto, sede del Servizio Giardini di Roma Capitale, è un gioiello nascosto di Roma, nella Valle delle Camene, incastonato tra la passeggiata Archeologica, via Druso, via Claudia e Villa Celimontana.
La sua istituzione risale al 1812, quanto l’aristocratico francese Camille de Tournon Simiane, nominato prefetto di Roma durante l’occupazione napoleonica dell’Urbe (1809-1814), ebbe l’idea di realizzare una pepinière ovvero un vivaio per la produzione di piante da destinare ai nuovi parchi pubblici di Roma, il Jardin du Grand Caesar (al Pincio) e il Jardin du Capitole (ai Fori) che a differenza dei giardini delle ville nobiliari dovevano essere sempre aperti ai cittadini che vi potevano trovare svago e ristoro.
Osservando la pianta della citta di Roma di Roma di Giovanni Battista Falda (1676) notiamo che l’area in cui venne ricavato il vivaio coincideva con i terreni del Monastero di San Sisto che dal 1222, grazie a S. Domenico, ospitava le suore domenicane di clausura.
Nella mappa è ben visibile anche il Rivo dell’Aqua Mariana che correva nei pressi di S. Sisto dopo aver varcato Porta Metronia. Proprio qui la forza motrice dell’acqua consentiva il funzionamento di due mulini ad acqua fortificati, la Mola di San Sisto Vecchio e la Molella, edifici risparmiati e riutilizzati come uffici dell’attuale Semenzaio.
La pepinière era diretta dal botanico Hyppolyte Nectoux (1759-1836) che lasciò in eredità al governo pontificio ben 30.000 alberi pronti per essere trapiantati nell’Urbe pontificia all’indomani della partenza dei francesi.
Successivamente, fino al 1820 la gestione del vivaio fu affidata a Costantino Sabbati e, a seguire, durante il pontificato di Pio VII Chiaramonti, a Michelangelo Poggioli, archiatra e botanico romano, che se ne occupò fino alla morte nel 1850. A lui dobbiamo l’interessante opera Il vivaio romano delle piante (1814), che l’autore ritiene strumento utile sia per botanici, medici, farmacisti, artisti, sia per i possessori di vigne, orti e giardini. Da esso abbiamo estratto alcuni passi interessanti nell’italiano dell’epoca.
Le provide cure del Pontificio Governo concorrono pur’esse a promuovere, ed accrescere i lumi, e lo studio di una scienza, che a ben riflettere forma uno de’ punti essenziali per la salute, e felicità del Popolo. Quantunque scarsa non fosse di Piante la nostra campagna; si è voluto, che nuova quantità di questi esseri benefici nella massima parte al nostro suolo stranieri gelosamente si serbassero nel Vivajo, non ha molto, stabilito ad una lato della via Capena presso S. Sisto Vecchio. È nelle mire del nostro saggio Principe formarne copiosi allievi, che servire poi potranno siccome all’ornamento, e bene di Roma, così al particolar profitto degli Amatori delle Piante. Si vanno infatti codesti vegetali prosperosamente oggi producendo, e saranno per somministrare presto de’ vantaggi ad ogni aspettazione superiore [,,,]. Provengono tali piante quasi tutte dall’Asia, Africa, America, e dalle parti di Europa più remote da noi. Conoscerà ognuno ad evidenza l’indispensabile necessità, che ha il Botanico, il Medico, il Farmacista, l’Artista di esser delle Piante, che racchiudonsi nel Vivaio di Roma, pienamente informato: pur di gran bene andrebbero prive le altre classi del popolo, se lo ignorassero; di coloro spezialmente, che o custodiscono o posseggono vigne, orti, giardini, e qualsiasi altro terreno. […]
Michelangelo Poggioli si trovò di fronte a un grande dilemma: scrivere un trattato di botanica o un’opera che, pur mantenendo la scientificità, fosse comprensibile anche ai non esperti. Scelse il secondo approccio e per la classificazione delle piante presenti nel vivaio adottò il metodo di Anton Lorenzo di Jussieu.
Non posso però nascondere, che, concepito appena un tal disegno, mi trovai in grande imbarazzo. Avea pensato di scrivere come Botanico a comodo di tutti, e non mi era ricordato che il linguaggio di botanico non potea riuscire comodo a tutti. Ha, come pur le altre, la nostra scienza, quasi un idioma tutto suo; volea io dire una folla di artifiziosi termini, che in proposito di Piante fa d’uopo si adoperino, perché lo studioso di Botanica intenda; ma insieme sono agli altri il più delle volte impercettibili, non che ingratissimi ad amatore geloso di elegante italiana favella. Dopo qualche sospensione dell’animo mio a quel partito mi sono appigliato, che non facendomi rinunziare all’opera, ai periti, ed agl’imperiti di Botanica egualmente giovar potea. Se le descrizioni del genere, e della specie delle piante potranno talvolta per ragione de’ termini che deggionsi usare, essere più facilmente comprese da’ primi, che da’ secondi; le altre cose però saranno presto intese da tutti: si conosceranno i diversi luoghi donde le Piante del Vivajo Romano traggono l’origine, il tempo della fioritura, il modo di coltivarle, qual uso delle medesime far si possa. Non poco lume credo che recheranno alcune generali nozioni, che per i men pratici vo subito a proporre. Vivete felici.
In quest’area si localizzava anche la cartiera camerale di S. Sisto Vecchio, attiva tra il 1817 e il 1840 e specializzata nella produzione di carta pregiata (poi trasferita a Subiaco).
Una lapide murata su uno degli edifici all’interno del Semenzaio, risalente al 1863, ci racconta che durante il pontificato di Pio IX Mastai Ferretti, il Comune di Roma acquistò l’area, in precedenza affittata, e la modificò rendendola più pianeggiante, la circondò di mura, la arricchì con alberi da frutto, essenze floreali, alberi ornamentali, serre, fontane “per il piacere e l’utilità degli amatori, per il decoso e l’elevazione della città”.
Ai primi del Novecento, per mancanza di personale specializzato ed essendo gli interessi capitolini concentrati sullo sviluppo edilizio, il vivaio visse un periodo di decadenza e venne destinato alla coltivazione di ortaggi e rimessa per i carri funebri, ma nel 1926, con il supporto di Alberto Galimberti, direttore dei Giardini del Comune, fu rimesso in sesto e reinaugurato. Si deve all’architetto paesaggista Raffaele De Vico la risistemazione degli edifici esistenti e dell’area verde centrale, nonché la progettazione delle serre e dell’arancera.
Le bellissime serre, in ferro e vetro, hanno una tipica struttura a capanna e vennero realizzate per la coltivazione dei fiori.
L’arancera invece era destinata a ospitare le piante più delicate. Si caratterizza per la facciata neoclassica, il tetto parzialmente vetrato e la presenza di pilastri esterni che sorreggono ananas stilizzati. Restaurata una prima volta nel 1937 e ristrutturata di recente, è stata messa a reddito dal Comune che la affitta per eventi.
Periodicamente il Servizio Giardini organizza visite guidate per i cittadini, personalmente ho avuto la fortuna di partecipare a una di esse in compagnia dell’espertissimo ed entusiasta giardiniere Vincenzo Lipoli, che, forte delle sue competenze botaniche, ci ha illustrato una selezione di piante presenti nel Semenzaio, che in conseguenza delle esigenze del verde pubblico cittadino, dell’evoluzione delle tecniche di coltivazione e dei cambiamenti climatici è in perenne trasformazione.
E così ho appreso che vi si conservano le Azalee japoniche che ogni anno decorano a maggio la Scalinata di Trinità dei Monti ma anche le piante da interni per addobbi di ricorrenze e manifestazioni istituzionali e perfino i grandi vasi color arcobaleno allestiti lungo il percorso del Gay Pride, dipinti proprio qui.
Sarebbe impossibile parlare di tutte le piante meravigliose che abbiamo osservato e di tutti gli stimoli ad approfondire: riferimenti mitologici, aneddoti, protocolli per la cura delle piante….
Qualche esempio di alberi che non possono non affascinarci: la Jacaranda Mimosifolia dai fiori azzurri, il cui legno è noto come “falso palissandro” oppure la Chorisia speciosa (nota in Argentina come palo borracho, “albero ubriaco”), dal tronco rigonfio inferiormente e munito di grosse spine per difendersi dalle scimmie. Curiosamente, a Roma, le spine si stanno trasformando e negli anni sono diventate molto più piccole non dovendo difendersi da grossi animali.
Interessantissimo un esemplare di Punica granatum (melograno), un arbusto gigantesco che si rinnova sempre grazie all’impianto di irrigazione. A seguito delle trasformazioni, produce fiori con tantissimi petali, ma nessun frutto. È diventato sterile e la riproduzione può avvenire solo per talea.
Un ulivo dalla particolarissima chioma attende di essere fotografato nel settore dedicato all’arte topiaria. Vincenzo ci spiega che gli ulivi sono resistentissimi, che sopravvivono con poca acqua e amano essere “modellati”.
La visita termina nei pressi di un vecchissimo e gigantesco Cedro del Libano, ai piedi di Villa Celimontana, rigogliosissimo da un lato, ma monco dell’altro a seguito della eccezionale nevicata del 1956.
Una visita bellissima che merita più di una passeggiata, in stagioni diverse.
[Maria Teresa Natale]
Ciao vincenzo che fai di bello