Letteratura e mercati: passeggiata letteraria al mercato della Montagnola

Un progetto: “Labirinti di parole“; sette luoghi: altrettanti quartieri di Roma Capitale nel Municipio Roma VIII; una metodologia innovativa di costruzione di passeggiate letterarie. A partire da spazi specifici del territorio, l’Associazione culturale GoTellGo ha proposto una serie di passeggiate letterarie, finanziate dal suddetto Municipio su temi specifici (il mercato alla Montagnola, il cortile alla Garbatella, la strada sulla Via Appia antica, il fiume lungo le rive del Tevere, l’energia elettrica al Museo della Centrale Montemartini, la navigazione nella zona dei Navigatori, le migrazioni a Tor Marancia).

Passeggiata letteraria al Mercato romano della Montagnola [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Passeggiata letteraria al Mercato romano della Montagnola [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
La passeggiata letteraria, che vede alternarsi la lettura di una selezione di brani e un breve commento letterario, prende spunto dal luogo in cui si cammina, dal paesaggio in cui si è immersi e dal tema individuato. Per le letture – prosa, poesie, fiabe, filastrocche – si è attinto a letteratura italiana e straniera, classica e contemporanea, con l’intento di promuovere anche editori minori e traduttori. Il commento storico-letterario in itinere aveva l’obiettivo di puntualizzare frasi, parole e concetti emersi nei brani e stimolare l’interazione con i partecipanti, talvolta visivamente soddisfatti per aver riconosciuto un autore o un’opera, talaltra incuriositi per aver scoperto un nuovo romanzo, talaltra esterrefatti per non essersi ricordati di un brano presente in un libro già letto.

Al termine di ogni passeggiata i partecipanti hanno gradito la distribuzione della bibliografia con l’elenco delle opere da cui sono stati tratti i brani letti. Molti di essi hanno affermato di voler rileggere alcuni libri già presenti nelle proprie biblioteche, di volervi cercare nelle biblioteche di quartiere o di volerli acquistare.

Alcuni partecipanti ci hanno chiesto come avevamo fatto a effettuare la selezione dei brani, quasi sempre azzeccatissimi. Non abbiamo seguito regole precise, un po’ abbiamo sfruttato le nostre conoscenze letterarie, libri già letti o probabilità che un autore avesse trattato un determinato tema, talaltra siamo andate un po’ a naso, a zonzo nella letteratura, senza tralasciare suggerimenti di amici, conoscenti e collaboratori. Credere però che basti digitare su un motore di ricerca la parola “mercato” e “letteratura” oppure “mercato” e il nome di un determinato autore per ottenere al selezione dei brani è un errore, il più delle volte infatti il risultato è piuttosto scarso, di tanto in tanto si fanno scoperte interessanti. Il database di GoogleLibri ovviamente è una risorsa importantissima. Talvolta poi interviene anche un po’ di serendipità con sorprese interessanti. Siamo come dei cani da tartufo e il successo dipende dall’individuazione di parole chiave significative.

L’interesse verso l’iniziativa ci ha spinto a pubblicare una serie di post sulle sette passeggiate realizzate, utili sia agli appassionati della letteratura sia per le scuole che volessero realizzare dei laboratori didattici sulla letteratura.

In questo primo post proponiamo una serie di brani sul mercato, che abbiamo proposto in occasione di una passeggiata nei pressi del mercato rionale della Montagnola.

Introduzione

Il mercato – dal latino mercatus -us, derivato da mercari «far commercio, trafficare» –  è un luogo di aggregazione che ha una cadenza temporale con degli attori di riferimento fissi – il fruttivendolo di fiducia, il macellaio di fiducia, il pescivendolo di fiducia, personaggi che non cambiano e che se cambiano aprono una voragine nei nostri affetti. A Roma ci sono circa 127 mercati rionali. Se andassimo a ritroso nel tempo, scopriremmo che i mercati sono sempre esistiti. Nella Roma repubblicana, il forum era anche uno spazio di mercato. In epoca imperiale i mercati si organizzavano per settori: il forum piscatorium era il mercato del pesce, il forum olitorium il mrcato delle verdure, il forum vinarium il mercato del vino, il forum boarium per la compravendita dei bovini, il forum suarium per la compravendita dei maiali e vi era addirittura il forum cuppedinis per l’acquisto di beni di lusso e ghiottonerie, un vero e proprio mercato delle prelibatezze, un Castroni dell’epoca, dove trovare tutte le cose di cui uno era ghiotto. Aveva a che fare con la cupidigia, un mercato di peccati veniali.

Il mercato compare come luogo che ha a che vedere con i sensi, gli odori, i rumori, il tatto, i colori. A Roma esistono ancora vecchi mercati, a via di Cola di Rienzo, a via Alessandria dove in piccolo sopravvivono strutture che nell’Ottocento sembravano enormi ed erano luoghi di passaggio, forse potrebbero essere considerati i “non luoghi” dell’accezione moderna visti come spazi di aggregazione o di passaggio.

Zola Émile, Il mio viaggio a Roma, Napoli, Edizioni IntraMoenia, 2013. Dal capitolo Da Campo de’ Fiori al Tevere, p. 87-88.

“Oggi al centro della piazza c’era il mercato della verdura con le donne sotto i grandi ombrelloni grigi, aperti. Si vendono le castagne calde, le castagne nei sacchi, mele, pere, uva, pomodori rossissimi, broccoli, sedano, insalate, tutti i legumi, pesce freschissimo. Un uomo portava file di rane, si udivano grida acute, un gran baccano, i venditori che vantavano a gran voce la propria merce. Povere donne che passano, preti, piccoli borghesi che acquistano, donne con i bambini in braccio. Niente abiti da passeggio, tutte in gonna e casacche sporche, di colore chiaro, con uno scialletto sulle spalle, senza cappello, generalmente brune. C’è qualche scialle rosso che risalta fra gli altri, carretti tirati da asinelli, in esposizione merce molto varia, fiammiferi, limoni verdi, articoli di merceria, vasellame per bambini (brocche a forma d’usignolo), peperoni verdi, peperoni gialli, melagrane (qualcuna aperta, rossissima), trecce d’aglio. Le bilance romane, tenute dai mercanti, posano su un piede di ferro […]. Gran brulichio sotto il sole, c’è un arrotino, le pigne, i legumi rossi, simili a grosse olive”.

Per riflettere: Abbiamo qui un mercato al minuto, dove i prodotti vengono venduti ai singoli, al dettaglio, in piccole quantità, in contrapposizione ai mercati generali. Zola descrive un mercato rionale, di dimensione ridotta, in stretto rapporto con il quartiere. Dalla seconda metà del Novecento si tende a togliere i mercati dal centro della città e spesso si costruiscono edifici periferici che crescono isolati dal quartiere che li ospita e che sono uguali, senza differenze rispetto alle città o alle periferie dove sorgono (si pensi ai mall e agli shopping center americani ispiratori dei nostri centri commerciali). Nella seconda metà del Novecento quindi il mercato perde il rapporto tra l’acquisto e il quartiere. Che bello l’accenno di Zola alle bilance romane! Un omaggio alle stadere (il pensiero va alla toponomastica di Roma dove si trova via degli Staderari) e alla metafora della giustizia: stadere con piatti e pesi di diverse misure.

Canetti Elias (1968), Le voci di Marrakech, Milano, Adelphi, 1983. Dal capitolo “I suk”, p. 21-24.

“C’è aroma nei suk, e freschezza, e varietà di colori. L’odore, che è sempre piacevole, cambia a poco a poco secondo la natura delle merci. Non esistono nomi, né insegne, e neppure vetrine. Tutto ciò che si vende è in esposizione. Non si sa mai quanto costeranno gli oggetti, né essi hanno infilzati i cartellini dei prezzi, né i prezzi sono fissi.
Tutti gli stanzini e le botteghe – venti o trenta o anche più – nei quali si vendono le stesse cose, sono vicinissimi uno all’altro. Qui c’è un bazar per le spezie e là uno per gli articoli in pelle. I cordai hanno il loro posto e così pure i cestai. Tra i mercanti di tappeti ce ne sono alcuni che stanno sotto grandi volte spaziose; ci si passa davanti come se fosse una città a parte e si viene invitati dentro con grande insistenza. I gioiellieri sono sistemati in uno speciale cortile, e in molte delle loro strette botteghe si vedono uomini al lavoro. Si trova di tutto, ma sempre in un gran numero di esemplari.
[…] Gli articoli in pelle di cui dispone questo bazar, che è il più grande e il più famoso della città, anzi dell’intero Marocco del Sud, vi vengono offerti per così dire tutti in una volta. In questa esibizione c’è molto orgoglio. Vi fanno vedere che cosa sono capaci di produrre, ma anche quanto hanno prodotto. È come se le borse stesse fossero consapevoli di rappresentare la ricchezza, e si mettessero in bella mostra agli occhi dei passanti. Non ci stupiremmo se esse, tutte le borse insieme, cominciassero ad un tratto a muoversi ritmicamente, e ci rivelassero, in una pittoresca e orgiastica danza, la grande seduzione di cui sono capaci.
L’impressione di solidarietà tra questi oggetti, che stanno uniti tra loro e ben separati da tutti gli altri oggetti di diverso tipo, si ricrea nel passante, secondo il suo estro, ad ogni giro che compie attraverso i suk. «Oggi vorrei andare per spezie» egli si dice, e un’incredibile mescolanza di odori sale alle sue narici, e già si vede davanti le grandi ceste di pepe rosso. «Oggi avrei voglia di lane colorate» e già queste, dall’alto, pendono giù da tutte le parti in diversi colori, rosso porpora, blu scuro, giallo oro e nero. «Oggi voglio andare per ceste e vedere come si intrecciano».
È sorprendente la dignità che acquistano in tal modo questi oggetti fabbricati dall’uomo. Non tutti sono belli, sempre di più s’intrufola tra loro robaccia di dubbia provenienza, fatta a macchina e importata dalle regioni del Nord. Ma il modo in cui sono presentati è ancora quello di una volta”.

Per riflettere: L’origine del mercato descritto da Canetti, il suk, è in Oriente e arriva in Europa alla fine del Medioevo come un elemento esotico. I mercanti, soprattutto veneziani, importano in Italia e in Europa questo tipo di mercato, il suk, mentre in Europa i mercati erano settoriali.

Siamo in Marocco, dall’altro lato del Mediterraneo. Nel mercato è disponibile anche robaccia di dubbia provenienza, fatta a macchina, importata dalle regioni del nord, oggi diremmo dell’est. Si inizia a perdere il lavoro manuale, inizia a svilupparsi l’industrializzazione nel nord Europa e i prodotti arrivano fino in Marocco.

C’è un altro elemento interessante che si perde con il tempo: il modo in cui viene esposta la merce e se ha un prezzo fisso e se questo prezzo è esposto. Nel brano di Canetti non vi sono pressi esposti: il mercato è lo spazio di contrattazione, che non è una caratteristica esclusiva dei mercati arabi e orientali. Il prezzo, le caratteristiche del luogo, le regole sanitarie sono posteriori, arrivano quando viene meno il rapporto di complicità tra chi vende e chi compra. Non ci si deve dimenticare che in economia il mercato è il luogo d’ incontro tra la domanda e l’offerta.

“Non ci stupiremmo se esse, tutte le borse insieme, cominciassero ad un tratto a muoversi ritmicamente, e ci rivelassero, in una pittoresca e orgiastica danza, la grande seduzione di cui sono capaci”. Gli oggetti acquisiscono dignità e si mettono d’accordo. Rievocando la danza degli ippopotami di Fantasia, le borse descritte da Canetti si mettono d’accordo nella vetrina del mercato, ballano tra loro e si fanno desiderare. Ed ecco perché ci piacciono i mercati: non andiamo solo per comprare. Le cose belle stanno in esposizione per essere desiderate e l’atto del consumo è ancorato nel nostro desiderio.

Bancarella di libri al Mercato della Montagnola [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Bancarella di libri al Mercato della Montagnola [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Belli Gioacchino, Er mercato de Piazza Navona, 20 marzo 1834

Ch’er mercordí a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini, bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie
nun c’è ggnente da dí. Ma ste scanzìe
da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu ppijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto pe cquarc’ora in mano,
dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che ppredicava a la Missione er prete?
«Li libbri nun zò rrobba da cristiano:
fijji, pe ccarità, nnu li leggete».

Per riflettere: Il sonetto del Belli si riferisce al mercatino dei libri che si teneva a piazza Navona nella Roma papalina. Il Belli ha una capacità infinita di ironia. È un luogo comune che in Italia si dica e si pensi che con la cultura non si mangia, perfino un ministro lo ha detto. Ma il brano del Belli ci riporta a una questione storica importantissima, un’enorme differenza tra il mondo cattolico e quello delle chiese riformate, per la quale alcune nazioni – tra cui l’Italia e la Spagna – pagano ancora un alto prezzo.

Cosa fece lo Stato Pontificio quando nacque la stampa a caratteri mobili? Belli ci dice: Ma ste scanzìe da libbri, e sti libbracci, e sti libbrari, che cce vienghen’a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie? I cattolici non dovevano leggere; per loro fu promossa una politica culturale basata nella iconografia e così si stampavano libri con meravigliose figure. La chiesa non faceva leggere il Vangelo, lo faceva osservare o ascoltare (tradizione orale e immagini). I protestanti fecero la scommessa contraria, pubblicavano in volgare, in tedesco, anche nei dialetti, e scommisero sulla lettura. Imparare a scrivere e a leggere: non è un caso che il Belli, che conosceva la storia italiana, dicesse: Li libbri nun zò rrobba da cristiano: fijji, pe ccarità, nnu li leggete (avrebbe dovuto dire “da cattolico”. D’altro canto, questo spartiacque nella nostra storia culturale ha fatto sì che in Italia possediamo un’arte sacra meravigliosa. Non avremmo l’arte del Cinquecento in poi se non fosse stata data questa importanza all’iconografia e se al contrario fosse stata privilegiata la lettura dei testi, come fecero le chiese riformate. Incredibili la sensibilità e l’ironia del Belli: dietro una frase c’e’ un trattato di sociologia.

Negro Silvio, Roma non basta una vita, 4° ed., Vicenza, Neri Pozza, 2014. Campo dei Fiori, p. 35-36.

“Chiusa da ogni lato contro le insidie del traffico [Piazza del Paradiso], con quattro stretti vicoli che sembrano fatti apposta per non lasciar passare che i pedoni che hanno tempo da perdere, essa è veramente per i negozi ambulanti di carta stampata un angolo di paradiso. […] un angolo di delizie quale si conviene al temperamento fantastico e austero dei visitatori e a quella liquidazione di fine Ottocento che vi sciorina, una volta la settimana, le sue appassite meraviglie. Sono naturalmente, quelle dei bibliofili di Campo dei Fiori, pure gioie dello spirito, senza nessuna contaminazione di lucro.
[…] Contrariamente all’uso generale, i librai di Campo dei Fiori non gridano mai la loro merce: solo qualche voce stonata avverte talvolta il passante: “Libri inglesi e tedeschi”, ma sommessamente, in un tono che non ha niente a che fare con i richiami ciarlataneschi che altrove sono di rigore. E’ questa un’altra caratteristica grata al nostro uomo. Non che l’angoletto dei libri sia silenzioso, anzi. Alcuni grammofoni, piazzati agli sbocchi della piazzetta, fanno a gara per riempirla di note squillanti e allegre. Ma è una musica che non disturba la meditazione, che l’aiuta anzi e la rende leggera, riempiendone con un grato diversivo le soste. Il vecchio bibliofilo, persona austera e scontrosa, che non ama affatto il caffè-concerto, ascolta qui le canzonette e i ballabili di moda con una curiosa compiacenza da bambino”.

Per riflettere: Silvio Negro, giornalista del dopoguerra, accenna ai rumori nelle zone dei mercati. In ogni mercato c’è chi vocifera forse in modo ingannevole: “Venite, venite numerosi, non rubate che ho già rubato”, tipica frase da mercatino. Ma Negro ci fa pensare ai mercati come a un palcoscenico con degli attori, nel caso specifico i bibliofili, che addirittura subiscono un tormento acustico pur di trovare il libro che cercano. Del resto, quante volte è capitato anche a noi di fermarci in un mercato a sbirciare dei libri con uno stonato flauto peruviano come sottofondo ascoltare?

Camilleri Andrea, La Vucciria, Milano, Skira, 2008.

“Ogni simana di sabato mattino Anna va a fare la spisa alla vucciria.
‘Lo salutasti a don Nino’ – le spia sò marito Peppe quando torna affannata con cinco o sei buste di plastica nelle mano.
E lei:
‘Non lo vitti. Forsi stava travaglianno’.
Opuro:
‘Arriva clienti, non lo volli disturbari’.
Certe volte, la risposta può essere un semplici sì.
Ma si tratta sempre di farfantarie, perché lei in quella viuzza accussì stritta, accussì china di bancarelle d’ova, di frutta, di virdura, di caci, di carni, di pisci, che in mezzo ci può passari ‘na sola pirsona a volta, prifirisci non annarci pirchì so semto assuffuccari.
Non per mancanza d’aria, ma è la violenza dei colori che le fa firriare la testa.
Il banco della scorcia dell’ova allato al giallo delle banane al rosso dei pomodori e dei peperoni al rosa tenniro dei piscispata tranciati al nivuro dei passuluna al bianco lattigno delle ricotte all’arancione dell’aranci, e il bianco virdi dei finocchi diverso dal bianco virdi della cicoria diverso dal virdi splapito della lattuca, un colri appresso all’altro, senza ‘na pausa, un momento di respiro, non le danno abento.
Quanno finisci di travisarla tutta e infini arriva a capo della viuzza, si trova ad aviri il sciato grosso come quanno si tocca la riva allo stremo delle forzi doppo ‘na longa natata.
Perciò la spisa squasi sempri la fa nella chiazza che c’è subito scinnuti i scaloni di via Roma. Macari qua ci stanno gli stissi colori, certo, ma tra l’uno e l’altro c’è quel tanto di largo bastevoli pirchì l’occhio arriposi. Abbasta non considerari l’aduri delle panelle fritte e del pani cu ‘a meusa che t’impregna vistiti e capilli e che ti fa passari il pititto”.

Per riflettere: La Vucciria è un libro di Camilleri elaborato a due mani, con un breve racconto dell’autore (La ripetizione) seguito da un saggio del figlio adottivo del pittore Renato Guttuso, Fabio Carapezza Guttuso (Storia di un quadro), illustrato con interessanti fotografie del celebre mercato palermitano scattate dal patrigno in vista della preparazione dell’omonimo quadro e con altre immagini di particolari del dipinto. I protagonisti del racconti di Camilleri sono ispirati ai personaggi dipinti sulla tela di Guttuso realizzata nel 1974 e conservata a Palermo, a Palazzo Steri. La sola visione di questo quadro vale una visita a Palermo.

Non è proprio facile commentare Camilleri. Gli spazi non sono gratuiti. Avevamo parlato di piazze, piazze ampie. Una donna nel racconto di Camilleri preferisce la piazza perché è più ampia, perché qui può respirare, al contrario della viuzza accussì stritta. Qui i sensi sono sopraffatti da colori, odori, stimoli, che addirittura ci sente assufucari. Nella piazza la donna può riposare l’occhio. La genialità dello scrittore sta anche nell’accurata e vivace descrizione della scena di mercato.

Palazzo Steri, Vuccirìa, di Renato Guttuso [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Palazzo Steri, Vuccirìa, di Renato Guttuso [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Tomassino Letizia, La Vucciria, in: Palermo in… racconti, Tricase (LE), Youcanprint Self-Publishing, 2016.

“Il mercato della Vucciria con i ‘putiari’ e la loro merce in bellavista; gli odori delle spezie e del pesce appena pescato. [… ] ‘Accura, chiuiti a burza e st’attenta e scippaturi’. Queste le parole che mi diceva mia madre quando mi mandava a comprare qualcosa. […] Con mia madre a braccetto, certe volte, andavamo in una salumeria che aveva un coccodrillo di plastica appeso al soffitto, poi, giravamo per il mercato a curiosare tra le bancarelle e alla fine uscivamo dal mercato piene di buste con varia mercanzia. Tutti ‘abbanniavanu’ così da esaltare ed invogliare il compratore e soprattutto convincerlo che la loro merce era la migliore e la più fresca di tutto il mercato. Noi avevamo i nostri punti vendita di fiducia, quindi la carne la prendevamo solo da uno, il pesce da un altro, il pane solo da Cimino e la frutta da quel ‘caravigghiaru’ che aveva prezzi esorbitanti, ma mio padre si fidava solo di lui: non lo dite a nessuno, ma mia madre faceva finta di comprare lì la frutta così da far la cresta sulla spesa e poter comprare qualcos’altro a noi figli.”

Per riflettere: in questo brano, che si riferisce a un ricordo ambientato negli anni Settanta del Novecento, alla signora rimane quale soldo in tasca, con il quale fare la cresta. La signora doveva compare qualcosa al mercato per conto della madre, ma dichiara di avere speso più del prezzo reale, per poter trattenere la differenza e comprare qualcosa per i figli. La storia rimanda a un periodo in cui per molte famiglie era difficile sbarcare il lunario e di tanto in tanto bisognava ricorrere a qualche stratagemma.

Chevalier Tracy, La ragazza con l’orecchino di perla, Vicenza: Neri Pozza, 2000, p. 30.

“Il Mercato delle Carni si trovava proprio dietro al Municipio, verso ovest. All’interno c’erano trentadue banchi: da generazioni a Delft esistevano trentadue macellai.
Il luogo era affollato di domestiche che sceglievano, contrattavano e compravano la carne per la famiglia, e di uomini che arrivavano carichi di bestie macellate e se ne andavano con le carcasse. La segatura sparsa sul pavimento assorbiva il sangue e si attaccava alle scarpe e agli orli dei vestiti. Nell’aria ristagnava un odore di sangue che mi fece rabbrividire.
[…] Il nostro macellaio metteva sempre un grembiule pulito quando stava dietro al banco a servire, e lo cambiava subito non appena gli si sporcava di sangue.
Pieter mi squadrò dalla testa si piedi quasi fossi un pollo ben ingrassato, pronto per lo spiedo. ‘Che cosa vorresti oggi, Griet?’
Mi girai verso Tanneke. ‘Due chili di braciole e mezze chilo di lingua’, ordinò lei.
Pieter sorrise. ‘E voi che ne pensate signorina?’ chiese rivolgendosi a Maertge. ‘Forse che non vengo la lingua migliore di Delft?’
Maertge assentì con una risatina, fissando l’esposizione di pezzi di polpa, braciole, lingue, zamponi di maiale, salsicce.
‘Vedrai, Griet, che io ho la carne migliore e le bilance più oneste del mercato’, garantì Pieter mentre pesava la lingua. ‘Non avrai mai da lamentarti di me’.
Guardai ancora una volta il grembiule e deglutii”.

Per riflettere: un brano che sembra un mitragliata di stimoli. Siamo in Olanda. Se ricordate abbiamo accennato ai mercati come spazi aperti. Nell’Ottocento alcuni mercati vengono costruiti in ghisa e vetro. Qui ci troviamo in una struttura simile. Dobbiamo probabilmente agli olandesi il fatto di aver creato i primi mercati dedicati esclusivamente a un tipo di merci, come il famoso mercato delle carni di Haarlem. Nel brano appena letto si fa riferimento al mercato delle carni di Delft che rispecchia la tradizione olandese di dedicare il mercato a un’unica tipologia di prodotti. Ma potremmo pensare anche alle Halles Centrales di Parigi, scenario tra l’altro di Il ventre di Parigi di Émile Zola.

Sofer Dalia, La città delle rose, Milano, Piemme, 2008, p. 214.

“Verso le tre di notte, sulla via del ritorno, verso il ponte, [Parviz] passa dal mercato del pesce di Fulton. Osserva le consegne dei furgoncini, e cassette ammassate e i pescivendoli, con le facce coperte di fuliggine, che si riscaldano le mani a piccoli falò accesi dentro secchi della spazzatura, mentre contrattano con i clienti. Le strade, con l’acciottolato reso sdrucciolevole dalle interiora dei pesci, hanno l’inconfondibile odore dei porti di mare: un odore familiare che gli ricorda la città di Ramsar sul Caspio, non lontana dalla casa di vacanze della sua famiglia. Essere sveglio a quest’ora e sentire l’odore dell’aria di mare gli fa piacere. Dice a se stesso che per capire il mondo, e trovare addirittura in esso un momentaneo sollievo, una persona deve sempre alternare le sue ore di sonno, la strada che lo porta al lavoro, i luoghi che visita, il cibo che mangia e persino, forse, le persone che ama”.

Per riflettere: Una partecipante, americana, descrive il mercato del pesce di Fulton, che oggi ha perso l’antico fascino ed è frequentato per lo più dai turisti.

Seneca, Lettere a Lucilio, 95, 42.

“A Tiberio fu inviata una triglia di dimensioni gigantesche – e perché non specificare il peso e solleticare la golosità di qualcuno? – dicevano che pesasse quattro libbre e mezza. Egli diede ordine che fosse portata al mercato e messa in vendita, dicendo: ‘Amici, se non mi sbaglio, questa triglia la comprerà o Apicio o P. Ottavio’. Ma si andò al di là delle sue previsioni: misero il pesce all’asta, vinse Ottavio e si ricoprì di grande gloria tra i suoi: aveva acquistato per cinquemila sesterzi la triglia venduta da Cesare, che neppure Apicio aveva comprato. Pagare una somma simile fu una vergogna per Ottavio, non per chi aveva acquistato la triglia con l’intenzione di mandarla a Tiberio; per quanto, secondo me, anche costui va criticato: l’ha giudicata straordinaria e ne ha considerato degno l’imperatore”.

Per riflettere: Questioni di pesci… non si dovrebbe dimenticare che nel mercato del pesce del portico di Ottavia e nel palazzo dei Conservatori in Campidoglio si trovano due targhe che ricordano che se veniva pescato uno storione più grosso di quello rappresentato nella targa, la testa doveva essere consegnata ai Conservatori… Le teste in questioni erano la parte migliore del pesce per fare una buona zuppa. Questo privilegio dei Conservatori si mantenne fino al 1798.

Musei Capitolini, Targa degli storioni [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Musei Capitolini, Targa degli storioni [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Gadda Carlo Emilio, Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, 12° ed., Milano, Garzanti, 1997. Scena di mercato a Piazza Vittorio, p. 241-243. 

“Alle dieci esatte […] è l’ora che le donne sogliono provvedere a mercato, in vista non solo della cena, quanto anzitutto del pranzo alle cure loro imminente: l’ora delle mozzarelle, dei formaggi, delle vermifughe cipolle, e dei cardi, sotto la neve pazientemente ibernanti, degli odori, delle insalatine prime, dell’abbacchio. Gente che venneveno la porchetta su le bancarelle de piazza, quella mattina, ce n’era na tribbù. Da San Giuseppe in poi è la staggione sua, se po dì. Col timo e co li fiocchetti de rosmarino, e l’agli nun ne parlamo, e il contorno o il ripieno de patate co l’erbetta pesta.
[…] “La porca, la porca! Ciavemo la porchetta, signori! La bella porca de l’Ariccia co un bosco de rosmarino in de la panza! Co le patatine de staggione!” “Patatine de staggione, sori cavajeri e consijeri, spose mie belle! Che so mmejio che l’ova toste per l’insalata. Mejo dell’ova de li capponi so’, ste patate. V’oo dico io. Assaggiatele! […] Uno e novanta l’etto, la porca! E’ na miseria, signori! Robba da fa vergogna, signori! A chi venne e a chi crompa” Uno e novanta l’etto, più mejo fatto che detto. Famese avanti co li baiocchi a la mano, sore spose! Chi nun magna nun guadagna. Uno e novanta l’etto, la porca! Carne fina e dilicata, per li signori proprio. […] Chi prova ciariprova, er guadambio è tutto vostro. La bella porca de li Castelli!
[…] [Uscendo] dalla confusione verso Via Mamiani o via Ricasoli: c’era un passaggio tra le bancarelle de li pesciaroli e de li pollaroli, indove che venneno li calamari e li totani e tutte le qualità d’anguille e d’aguglie che stanno a mare, nun parlamo de l’arselle. Il tipetto, e lui stesso il Biondone, sguardarono a quelle polpe molli d’un argento-chiaro madreperla de li calamari, annasarono senza pur volerlo odor d’alighe marine da tutto il fresco umidore, quel senso di cielo e di libertà cloro-bromo-jodica, di mattina viva alle darsene, quella promessa d’argento fritto nel piatto per la fame che già chiamava dal profondo. Rotoli di trippe lesse l’un sull’altro come tappeti arrotolati, gentili anatomie di capretti spellati, rosso bianche, il codonzolo appuntito, ma terminato nel ciuffetto, a significarne in modo veridico la nobiltà: “per quattro lire v’oo do tutto”, diceva l’abbacchiaro, presentandolo a mezz’aria, tutto cioè mezzo; e i bianchi cespi de la lattuga romana, o insalatine ricciolute tutte riccioli verdi, polli vivi coi loro occhi che smicciano da un lato solo e vedono, ognuno, un quarto del mondo, galline vive chiotte chiotte stipate nelle loro gabbie, o nere o belghe o padovane avorio-paglia, peperoni secchi gialloverdi, rossoverdi, che al mirarli solo ti pizzicano la lingua, ti mettevano in salive la bocca: e poi noci, noci di Sorrento, nocciuole di Vignanello, e castagne a mucchi. Le donne, le polpute massaie: lo scialle scuro, o verde erba, una spilla da balia co la punta aperta, ahi! Da pinzar la poppa alla vicina d’un attimo: così fan tutte! Polponi semoventi, esse ambulavano a fatica da uno spaccio e da un ombrellaccio al successivo, dai sèlleri ai fichi secchi; si rivolvevano, si strofinavano i rispettivi gregori l’uno all’altro, annaspavano ad aprirsi il passo, con borse ricolme, soffocavano, boccheggiavano, grasse carpie in una piscina-trappola dove l’acqua a poco a poco decèda, stipate, strizzate, intrappolate a vite con tutta la lor ciccia nei vortici della gran fiera magnara”.

Per riflettere:

Ed eccoci tornati a piazza Vittorio, prima che il Mercato fosse spostato all’ex caserma Sani, dove oggi si trova. La piazza è il teatro della vita. È la mattina del 20 ottobre 1945 e Gadda, a Firenze, legge sconvolto un articolo sul Risorgimento Liberale: a Roma, in piazza Vittorio, una donna trentaquattrenne e il suo bimbo di due anni sono stati sgozzati con un coltello da macellaio. Si chiamavano Angela e Gianni. I corpi erano stati trovati da un cugino della donna. Gadda ritaglia l’articolo. Non sarà interessato al nome o al movente dell’assassino. Riterrà secondario che le colpevoli fossero due sorelle, sfollate da Velletri a Colleferro, figlie di un macellaio, e che volessero la pelliccia di volpe argentata della sfortunata Angela. L’ingegnere si concentra sul modus operandi. Ci sono stati altri assassinii a piazza Vittorio, forse silenziati dalle voci del Mercato che diventa così complice…

Banco del pesce al Mercato della Montagnola [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Banco del pesce al Mercato della Montagnola [Foto: Associazione culturale GoTellGo, CC BY NC SA]
Lodoli Marco, Isole. Guida vagabonda di Roma, Torino, Einaudi, 2005. Piazza Vittorio, p. 72-73.

“Bello e impossibile era il mercato di Piazza Vittorio, col suo sapor mediorientale, come cantavamo qualche anno fa. Rispettabilissime ragioni igieniche lo hanno sloggiato dal marciapiede per assegnargli una sistemazione più razionale, all’interno di un edificio preparato ad accogliere banchi e frigoriferi. A noi rimane un po’ di nostalgia per quel caravanserraglio di merci, odori, colori e grida che avvolgevano la piazza, per le chiacchiere e gli spintoni che venivano scambiati in quel corridoio stretto e caotico. In questo momento così critico per la storia del mondo, c’è un gran bisogno di luoghi in cui incontrarsi con gente diversa, per vincere il sospetto e la paura. […] E allora dirigiamoci verso i grandi magazzini Mas, in via dello Statuto, una sorta di Onu dei disgraziati. Fuori dall’immenso edificio umbertino penzolano le bandiere di tanti stati diversi – il globo brasiliano, le mezze lune arabe, le stelle dell’Unione europea – arrotolate dal vento e un po’ stracciate. Dentro c’è il mondo intero in vendita a nove euro e novanta, montagne di magliette e camicie, accappatoi e scarponi, piumini e tute sportive, e anche giocattoli e orologi, quadri e tappeti, teiere e mutande, vasi e lampadari, tutto quanto a prezzi irreali. Attorno alla confusione dei banchi, toccando e valutando, girano i nuovi poveri della nostra città, formose nigeriane, piccoli cinesi, arabi riccioluti, donne con il chador e uomini baffuti e olivastri, bambini di tutti i colori, ma pure tanti italiani con pochi soldi in tasca. Capita di fare rapide considerazioni su una camicia a scacchi con uno straniero esitante e poi, chissà come, la conversazione si allarga, si parla di Roma e del Papa, di calcio e di guerra, della vita che è difficile ovunque, ma in qualche posto ancora di più. La camicia alla fine la compriamo noi, costa così poco, ma l’idea che stiamo tutti sotto lo stesso cielo, quella ci viene data in dono, ed è preziosa”.

Per riflettere: i mitici Mas (M.agazzini A.llo S.tatuto) chiusero definitivamente i battenti a gennaio del 2017. È stata la fine di una democratica esperienza di consumo. I Mas erano stati fondati agli inizi del secolo scorso, con il nome di Magazzini Castelnuovo, dal nonno materno dell’architetto Bruno Zevi. Antenati dei centri commerciali, furono la concorrenza in versione popolare della più sofisticata Rinascente a largo Chigi (e a piazza Fiume). Cinque piani, nei quali – come in un moderno suk urbano – si alternavano vestiti, stoffe, soprammobili, suppellettili, alimenti e infine… un punto ristoro (come nei più moderni centri commerciali). Tutto a prezzi popolari, per gente popolare. Durante il periodo fascista, i Castelnuovo dovettero togliere il loro cognome dalla ragione sociale dei magazzini, che passarono a chiamarsi Magazzini Roma prima di prendere il toponomastico acronimo che li ha distinti fino alla chiusura. Purtroppo non ci rimangono molte immagini di questi magazzini. In rete però si può vedere il video trash “Super Cafone” del rapper “Er piotta” girato nei Mas. Cronaca forse di una morte annunciata.

Baresani Camilla, Fighetto a chi?, in: “Il Foglio”, 4 aprile 2017

“Per raccontare Milano abbiamo scelto [il] mercato rionale [di Via Benedetto Marcello] – uno dei circa cento settimanali della città – perché è una vetrina di ogni possibile novità sociale innestata nelle più solide tradizioni urbane. Se dovessimo raffigurarlo in una vignetta, potremmo disegnare un banco con le statuine dei frequentatori-tipo, cliché alla maniera delle statuine da presepe di San Gregorio Armeno a Napoli […], cominciando con la coppia anziana e borghese, lui col bastone, lei col giro di perle, in rappresentanza degli abitanti delle belle case di inizio Novecento prospicienti il mercato. Avremmo poi i pupazzetti delle domestiche filippine e delle badanti ucraine e moldave, che fanno la spesa per chi non ha più la voglia e la forza di uscire di casa. Abbiamo sicuramente qualche giovane donna italiana, una mamma dello standard biondo-milanese, che potrebbe aver appena accompagnato la prole al liceo Volta o al collegio Gonzaga, oppure una di quelle ragazze che svolgono lavori creativi e comunicativi dal computer di casa, e che magari abita una delle casette monofamiliari della zona, ormai deprezzata dalla massiccia presenza di immigrati. Ci sarebbero l’immancabile cinese, la pakistana con il capo coperto dal dupatta, la bengalese in sari, la nordafricana niqabbata con il marito che la scorta durante la spesa per impedirle contatti e sfioramenti con commercianti maschi. Ci sono i neri del centr’Africa, appoggiati a muri o a tronchi d’albero, che non comprano ma vendono abusivamente cinture e borse contraffatte e alimentari etnici, merce che tengono nascosta nel bagagliaio di auto parcheggiate ai margini del mercato; ci sono le prostitute decrepite tipiche del quartiere, di solito tunisine e algerine, ma non mancano quelle in gita, di solito giovani nigeriane scaricate dai treni regionali, che non abitano nelle case di ringhiera del quartiere ma in lontani capannoni periferici. C’è la zingara col gonnellone, che legge la mano, c’è quella incinta con la borsa a tracolla specializzata nel borseggio, c’è il bambino zingaro pure borseggiatore, c’è il tipo incavolato perché è andato a dormire senza spostare l’auto e ora gliel’hanno rimossa, c’è la coppia di vigili, ci sono i latinos che fanno incetta di alette di pollo arrosto e di pesce persico per il chevice. Ci sono gli eritrei, sempre in gruppo, il trans brasiliano imbottito di silicone e tallonato dal fidanzato orgoglioso delle sue protuberanze, ci sono i vecchietti italiani che quando si smonta setacciano gli scarti del mercato, prima che gli squadroni di netturbini passino con le scope, le spazzole e l’idrogetto e gli spazi tornino a riempirsi di auto parcheggiate. Ci sono gli ambulanti assegnatari, fino a quindici anni fa nativi italiani (ormai rimasti in minoranza), e ci sono gli «spuntisti» (tutti di origine straniera) cui i vigili dell’annona assegnano alle 8 del mattino gli spazi liberi per la giornata, spuntandone i nomi dalla lista dei prenotati”.

Mafai Miriam, Una vita quasi due, a cura di Sara Scalia, Milano, BUR, 2012.

“Il ricordo più intenso e preciso è però la fame, il sapore delle carrube masticate tenacemente, a lungo, fino a ridurle a una polpa dolciastra, e la ricerca affannosa del cibo che cominciava appena finito il coprifuoco. Uscivamo presto, il prima possibile, per andare a caccia, in periferia, oltre la porta San Giovanni, di qualche contadino disposto a vendere un chilo di patate o delle uova. Ci svegliavamo all’alba per metterci in fila davanti ai banchetti di un mercato per comperare delle carote, un cavolo, qualsiasi tipo di verdura, o per fare la coda di fronte a un negozio per ritirare, con la tessera, la nostra razione di pasta, di zucchero, di riso, di pane. Razioni alle quali avevamo diritto ma che non sempre erano disponibili e sempre erano insufficienti. Alle volte, quando mio padre ci consegnava un po’ di danaro, arrivavamo fino a Tor di Nona dove funzionava, quasi regolarmente, un mercato nero in cui era possibile acquistare di tutto, da un po’ di formaggio o una bottiglia d’olio fino alle uova, alla carne. (Ho visto lì per la prima volta, con feroce invidia, una signora e le sue due figlie che comperavano un agnello intero. Ma il pane, il pane era ciò di cui tutti sentivamo di più la mancanza. La razione venne di mese in mese ridotta fino a 100 grammi a testa”.

Pasolini Pier Paolo, Ragazzi di vita, Milano, Garzanti, 1955, p. 5.

“Il giorno dopo il Riccetto e Marcello, che c’avevano preso gusto, scesero insieme alla Caciara, i Mercati Generali, che erano chiusi. Tutt’intorno girava una gran massa di gente e dei Tedeschi, che camminavano avanti e indietro sparando in aria. Ma più che i Tedeschi a impedire l’entrata e a rompere il c… erano gli APAI. La folla però cresceva sempre più, premeva contro i cancelli, baccajava, urlava, diceva i morti. Cominciò l’attacco e anche quei fetenti degli Italiani lasciarono perdere. Le strade intorno ai Mercati erano nere di gente, i Mercati vuoi come un cimitero, sotto un sole che li sgretolava: appena aperti i cancelli, si riempirono in un momento.
Ai Mercati Generali non c’era niente, manco un torso di cavolo. La folla si mise a girare pei magazzini, sotto le tettoie, negli spacci, ché non si voleva rassegnare a restare a mani vuote. Finalmente un gruppo di giovanotti scoprì una cantina che pareva piena: dalle inferriate si vedevano dei mucchi di copertoni e di tubolari, tele, incerate, teloni, e, nelle scansie, delle forme di formaggio. La voce si sparse subito: cinque o seicento persone si scagliarono dietro il gruppo dei primi. La porta fu sfondata, e tutti si buttarono dentro, schiacciandosi. […] La scaletta a chiocciola straboccava di gente. Una ringhiera di ferro, sottile, cedette, si spaccò, e una donna cadde giù urlando e sbatté la testa in fondo contro uno scalino. […] ‘E’ morta,’ gridò un uomo in fondo alla cantina. ‘E’ morta’, si misero a strillare spaventate delle donne; non era possibile né entrare né uscire. Marcello continuava a scendere gli scalini. In fondo fece un salto scavalcando il cadavere, si precipitò dentro la cantina, riempì di copertoni la sporta insieme agli altri giovani che prendevano tutto quello che potevano. [….] tornò a scavalcare la donna morta e corse verso casa”.

Per riflettere: Prima di leggere i brani di Mafai e Pasolini, i mercati nelle nostre letture erano colorati, ora invece si parla dei mercati nel periodo dell’occupazione nazifascista dell’Urbe nel 1943-1944. A Roma per esempio c’erano dei luoghi per comprare beni e alimenti a peso d’oro, si pensi per esempio al Mercato nero di Tor di Nona. E come non ricordare il dramma di chi cercava di accaparrarsi il grano nei forni, talvolta a costo della vita? Mentre leggevamo il brano della Mafai, ci è venuto in mente una scena del Il tamburo di latta di Gunther Grass, dove il pane costituisce un elemento di consolazione.

Bartolini Luigi, Ladri di biciclette, Milano, Longanesi, 1984.

“Il secondo giorno, pensai recarmi a Porta Portese, giacché Porta Portese è il più grande tra i covi di ladri, Era di buon mattino e, quando m’alzai, saranno state le sei e mezzo. […] Alle sei ore e tre quarti il budello di strada di Porta Portese già formicolava di ladri. […] Ladri, impalati ciascuno con una o due ed anche tre biciclette alla mano s’intramezzavano a venditori di fichi e d’uva, noci e nocciuole. Ahimè! La gente era tanta da farmi temere che la difficoltà maggiore sarebbe stata quella di potermi aggirare frammezzo a ritrovare la bicicletta prima che il ladro s’accorgesse della mia presenza.
[…] Osservai che nei cinquecento metri d’assembramento erano non meno d’una cinquantina di giuocatori di tarocchi, zecchinetta e roulette, coi loro tavolinetti a treppiede, e tavole distese, il pezzo di cartone con numeri e spazi. Intanto giravo gli occhi da tutti i lati e da nessuno vedevo sortir fuori la mia bicicletta, né sortiva fuori il mio ladro. Mi venne in mente che il ladro avesse già smontata, divisa in pezzi la bicicletta. […] Mentre cercavo, notai un ladro che, tranquillissimo, in mezzo alla gente smontava una bicicletta, e ne grattava i contrassegni, la marca, le linee di diverso colore, stampigliate sul telaio: e che stava deturpando, graffiando, grattando, allo scopo di camuffarla. A questo punto, colpo di scena: apparvero dei militi della polizia alleata inglese: coi loro berretti rossi geranio, le loro facce ben rase, l’arguto saluto nobilesco, la muscolatura erculea, la gigantesca statura. Montavano, in sei, sopra una camionetta militare. La gente faceva largo al passaggio. Però gli stranieri erano venuti a Porta Portese né più né meno che per osservare i fatti loro: come ben presto s’avvidero e persuasero i ladri e manutengoli. Infatti i poliziotti inglesi arrestarono soltanto un tale – disgraziatissimo tra i disgraziati – che andava offrendo, in vendita, un paio di scarpe, americane, di tipo militare; e, forse, rubate a un militare alleato o, forse anche, dono del militare negro, o senegalese, a una ragazza romana figlia, o moglie, di manutengolo. Fatt’è che lo presero, lo fecero montare in automobile e lentamente, e argutamente sorridendo, si allontanarono insieme al merlo preso in trappola. Commento dei ladri? Essi sono ben stoici, Sono filosofi autentici; ma non sanno, per loro fortuna, di esserlo. Si domandavano brevemente, uno con l’altro; «Cos’è stato?» «Vendeva un paio di scarpe degli americani»”.

Per riflettere:  Nel momento in cui leggiamo il brano di Ladri di biciclette, arrivano le guardie della sicurezza del mercato della Montagnola. C’è sicuramente un problema di legalità. A chi possono dare fastidio dei lettori di brani letterari? E’ parte dell’equilibrio dei mercati e degli attori che entrano ed escono dalla scena o, come recitava Calderón de la Barca, dal teatro del mondo.

[a cura di Gabriela Häbich e Maria Teresa Natale]

Vi invitiamo a suggerirci altri brani che potrebbero essere aggiunti a questa selezione.

Segnalato da Vanna Locatelli, 15/12/2019

Zola Emile, Il ventre di Parigi, (1873) introduzione di Alain Pagés, traduzione di Maurizio Grasso, Roma: Newton Compton, 2011

Claude, in uno slancio d’entusiasmo, salì sulla panchina, costringendo il compagno ad ammirare il sole che si levava sulla verdura. Era un mare, un mare che si stendeva dalla pointe Saint-Eustache a rue des Halles, tra due gruppi di padiglioni. Alle estremità, oltre gli incroci, il flusso aumentava ancora, la verdura sommergeva il selciato. Il sole si alzava lentamente, con una dolce luce grigia, bagnando tutte le cose con chiare tinte di acquerello.
I mucchi, spumeggianti come cavalloni, quei fiumi di verdura che scorrevano nel fondo della strada, facendola sembrare allagata dalle piogge autunnali, assumevano sfumature delicate e perlacee, teneri violetti, carnicini striati di lattei candori, verdi stemperati nel giallo, tutti quei tenui colori che trasformano il cielo, all’alba, in seta cangiante. […] I colori delle verdure si ravvivavano, affiorando dalla luce azzurrognola che lambiva ancora la terra. Le insalate, le lattughe, le scarole, le cicorie, schiuse e ancora grasse di terriccio, esibivano i cuori sgargianti; i mazzi di spinaci, di acetosella, di carciofi, i mucchi di fagioli e di piselli, le pile di lattughe romane legate con un filo di paglia, intonavano tutta la gamma di versi; dalla lacca dei baccelli al verdone delle foglie; una gamma vivace che andava smorzandosi fino alle screziature dei gambi dei sedani e dei mazzi di porri. Ma le note acute, che salivano più in alto, erano le macchie vivaci delle carote, e quelle bianche delle rape, che, disseminate in grandissima quantità lungo il mercato, lo illuminavano con l’accostamento dei loro due colori. […] I cavoli formavano delle montagne: gli enormi cavoli bianchi, duri e serrati come palle di metallo chiaro; le verze, le cui grandi foglie sembravano coppe di bronzo; i cavoli rossi, che l’alba trasformava in fiori meravigliosi, color vinaccia, con venature di carminio e di cupa porpora. […] L’inizio di rue Rambuteau era bloccato da una barricata di zucche arancioni, strette in due file, che sporgevano il ventre. E la patina bruno-dorata di una cesta di cipolle, il rosso sanguigno di un mucchio di pomodori, il verde sbiadito di una catasta di cetrioli, il viola cupo di un cumulo di melanzane, si accendevano qua e là mentre grossi rafani neri, allineati come fasce luminose, mettevano qualche squarcio di tenebra nella vibrante gioia del risveglio.
Claude, davanti a quello spettacolo, batteva le mani. Trovava le “dannate verdure” stravaganti, folli, sublimi. E sosteneva che non erano morte, ma che, strappate dalla terra il giorno prima, aspettavano il sole dell’indomani per dirgli addio sul selciato delle Halles.

Segnalato da Franco N., 18/12/2019

Lakhous Amara, Divorzio all’islamica a Viale Marconi, Roma: e/o, 2010, p. 104-106

Il tempo passa velocemente, si avvicina l’ora di pranzo. Devo andare a fare la spesa al mercato. Mi piace girare fra le bancarelle di frutta e verdura. Fare la spesa è un mestiere, anzi un’arte, come dice sempre mio padre. Ci sono regole importanti da rispettare. Primo, osservare con estrema pazienza le merci. Secondo, non rispondere subito alle sollecitazioni dei venditori. Terzo, prendersi il tempo necessario per scegliersi i prodotti. Quarto, comprare esclusivamente in base al rapporto qualità-prezzo. Bisogna fare come il bravo cacciatore: colpire nel momento giusto per non sbagliare. Forse ho trovato la mia preda. Questo venditore ha le mele più buone del mercato. Ci sono due persone prima di me. Dopo un paio di minuti è il mio turno. Mentre sto per aprir bocca spunta dal nulla un signore sulla cinquantina e chiede di essere servito per primo. Pensavo non mi avesse visto, una semplice e innocente disattenzione. Invece mi sbagliavo. E di grosso. Il tizio mi guarda con disprezzo e dice:
“C’ero prima io! Capisci l’italiano?”
“Capisco perfettamente l’italiano. Lei è un maleducato!”
“Ma sentite questa. Una mummia che parla!” Perché non te ne torni nel tuo paese? Perché venite qui da noi a fare casini, a diffondere fanatismo e a mettere le bombe, eh?”
“Sei un cretino!”
“Ma vattene in Afghanistan con il tuo burqa, sennò mi [infurio] e te meno pure”.
Il cretino mi dà una spinta, io perdo l’equilibrio e cado per terra. Aida inizia a piangere. Sento un forte nodo alla gola. Mi manca il respiro. La gente si dispone in modo accanto a noi per godersi lo spettacolo dal titolo La Maya velata e il cretino razzista. Qualcuno mi allunga una mano per aiutarmi ad alzarmi. Ormai non riesco a trattenere le lacrime. Apro gli occhi con diffidenza e vedo lui: l’arabo senza nome, il Marcello arabo”. Mi dice: “Ma tkhafish, non aver paura”. […]
Torno a casa e decido di non dire nulla a mio marito. A cosa servirebbe? Meglio lasciar perdere. Lo conosco troppo bene. Userà questa storia per chiudermi in casa o non lasciarmi più uscire da sola. A dire la verità non è la prima volta che rimango vittima di episodi di razzismo. Sono sicura che il mio velo è solo un pretesto. Anche le suore portano una sorta di velo. Perché a loro non succede nulla? E che dire delle ragazze con la minigonna o di quelle che vanno in giro seminude? Loro sono libere e io no? […]
Con il passare del tempo divento solidale con il mio velo. Sì, è proprio così. E’ vero che all’inizio non lo ho scelto, però adesso è il simbolo della mia identità, anzi è la mia seconda pelle. E allora? Allora niente. Non solo devo accettarlo, ma difenderlo pubblicamente. Non è più una questione di velo, di vestito, ma di dignità. Se non accettano il mio velo, vuol dire che rifiutano la mia religione, la mia cultura, il mio paese di origine, la mia lingua, in breve la mia esistenza. E questo è inaccettabile.

[a cura di Gabriela Häbich, in collaborazione con Maria Teresa Natale]

Letteratura e cortili: passeggiata letteraria tra i cortili della Garbatella

 

 

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