Sette capolavori e altrettante storie nel Museo Chiaramonti ai Musei Vaticani

Il Museo Chiaramonti, parte dei Musei Vaticani, fu fondato da papa Pio VII (Barnaba Chiaramonti) nel 1807. Si compone di tre sezioni, ricche di capolavori: la Galleria Chiaramonti, il Braccio Nuovo, e la Galleria lapidaria (quest’ultima accessibile solo su richiesta).

Museo Chiaramonti, Antonio Canova, Ritratto di Pio VII [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Antonio Canova, Ritratto di Pio VII [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
La lunga Galleria, allestita da Antonio Canova, ospita centinaia di statue, ritratti, sarcofagi e fregi.  Il Braccio Nuovo, inaugurato nel 1822, fu realizzato in stile neoclassico per conto dello stesso Pio VII da Raffaele Stern e Pasquale Belli. Il Canova, ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, utilizzò questo spazio per esporre molte sculture cedute alla Francia a seguito del Trattato di Tolentino del 1797 imposto da Napoleone Bonaparte a papa Pio VI Braschi al termine della Campagna d’Italia e restituite in seguito alle decisioni prese nel Congresso di Vienna del 1815.

Museo Chiaramonti, Una delle lunette della Galleria raffigurante il rientro in Italia delle opere d'arte requisite dai francesi. In primo piano la personificazione del Tevere [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Una delle lunette della Galleria raffigurante il rientro in Italia delle opere d’arte requisite dai francesi. In primo piano la personificazione del Tevere [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Su incarico del Canova, alcuni pittori dell’Accademia di San Luca,  decorarono la galleria e nelle lunette raffigurarono alcuni episodi relativi alla politica culturale del papa, tra cui il ritorno da Parigi delle opere d’arte requisite dai francesi, la promulgazione delle leggi di tutela, gli scavi archeologici degli archi trionfali di Settimio Severo e Costantino.

In questo post abbiamo selezionato una serie di opere molto significative esposte nella Galleria e nel Braccio Nuovo di fronte alle quali vale la pena soffermarsi.

Galleria Chiaramonti

Museo Chiaramonti, Rilievo con triade femminile, tra cui la cosiddetta Gradiva [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Rilievo con triade femminile, tra cui la cosiddetta Gradiva [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Se alzate lo sguardo nel settore VII, potete ammirare un rilievo con una triade femminile, di cui solo una delle tre fanciulle è ben conservata. In origine, quest’opera doveva fare da pendant a un altro rilievo simile. Le sei fanciulle raffigurate, tre per parte, erano le Ore (custodi dell’Olimpo, figlie di Zeus e Temi) e le Aglauridi (figlie di Cecrope, le Moire ateniesi). Ambedue i rilievi erano copie romane di un originale greco del IV secolo a.C.

La storia connessa al rilievo del Museo Chiaramonti è veramente singolare. Lo scrittore tedesco Wilhelm Jensen (1837-1911), a seguito della sua visita nel museo, scrisse nel 1903 la novella Gradiva: una fantasia pompeiana, ispirata alla figura ben conservata del rilievo. Protagonista della novella è un archeologo tedesco, Norbert Hanold, rimasto affascinato dalla figura sul rilievo esposto in un museo romano,  raffigurata nell’atto di camminare (da cui Gradiva, “colei che incede”). Il giovane acquista un calco dell’opera e inizia a sognare: immagina di seguire la fanciulla per le strade di Pompei finché lei non scompare per l’eruzione del Vesuvio. Al risveglio, decide di partire per Pompei, dove incontra Zoe, una giovanetta con le sembianze della Gradiva marmorea, in realtà una compagna di giochi dell’infanzia, di cui aveva perso memoria e che alla fine sposerà. Ma la storia non finisce qui: lo psichiatra Carl Gustav Jung (1875-1961) segnalò l’opera letteraria a Sigmund Freud (1856-1939 ), che la esaminò come caso psichiatrico nel saggio Delirio e sogno nella Gradiva di Jensen (1907). Secondo il fondatore della psicoanalisi, impegnato nella definizione della teoria dei sogni, tensioni psichiche celate nell’intimo di una persona possono trasformarsi in forme di delirio che portano a vivere esperienze dove non è facile distinguere la realtà dall’immaginazione. Nel caso della novella tedesca, il trattamento psichico si concretizza attraverso Zoe che permette al protagonista di tornare alla realtà e di trasformare il suo incubo in un lieto fine. Freud, collezionista di arte antica, visitò a sua volta il Museo Chiaramonti e “incontrò” la Gradiva. Anche lui, come già il protagonista del racconto, acquistò un calco in gesso che appese sulla parete accanto al divano-lettino del suo studio. 

Museo Chiaramonti, Ollario del mugnaio P. Nonio Zeto [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Ollario del mugnaio P. Nonio Zeto [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Un reperto molto interessante è l’ollario del mugnaio P. Nonio Zeto (settore XIV), risalente al I secolo d.C. e rinvenuto a Ostia Antica, dove molini e panifici non mancavano. Ai fianchi della tabella centrale con i nomi dei defunti, due rilievi con scene di mestiere: a sinistra, un animale da soma fa girare una macina costituita da una parte inferiore conica (la meta) su cui gira un elemento superiore a doppia svasatura (il catillus) nel quale veniva introdotto il grano da ridurre in farina; a destra tre moggi di diverse dimensioni, dei canestri e dei setacci.

Museo Chiaramonti, Ollario del mugnaio P. Nonio Zeto, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Ollario del mugnaio P. Nonio Zeto, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Il moggio era il contenitore che serviva per misurare il grano. Il termine deriva dal latino modius, un’unità di misura equivalente a 8,733 litri. Nella parte superiore del monumento funerario marmoreo sono presenti gli incavi conici per l’alloggiamento delle urne cinerarie. A chi appartenevano? Secondo quando riferito dall’iscrizione il monumento fu ordinato dall’augustale Publius Nonius Zethus, addetto al culto di Augusto, che lo fece realizzare per sé stesso, la sua schiava liberata Nonia Hilara e sua moglie Nonia Pelagia, forse la moglie sposata in seconde nozze dopo la morte di Nonia. 

Museo Chiaramonti, Sarcofago con il gioco delle noci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Sarcofago con il gioco delle noci [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Il sarcofago con il gioco delle noci (settore VII) ci consente di raccontarvi che nell’antica Roma la noce non era solamente importante dal punto di vista alimentare, cultuale (la noce era sacra a Giove) e cerimoniale (il giorno delle nozze, lo sposo spargeva i frutti quali simbolo di abbondanza e fertilità; le noci venivano regalate ai fanciulli nel momento di passaggio dall’infanzia all’adolescenza), ma veniva utilizzata da bambine e bambini in numerosi giochi, antesignani del minigolf, del flipper e delle bocce! Le noci erano conservate in appositi sacchetti e al momento opportuno estratte per sfidarsi in competizioni che mettevano alla prova l’abilità dei partecipanti. Le varianti erano numerose e la posta in palio era sempre rappresentata dai gustosi frutti: il lancio della noce all’interno di un’anfora (orca); lo scivolamento di una noce lungo un pannello inclinato per cercare di colpire le noci degli avversari alla base; il tiro al bersaglio all’interno di un delta disegnato per terra con un gessetto; il lancio della noce in una buchetta.

Museo Chiaramonti, Sarcofago con il gioco delle noci, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Sarcofago con il gioco delle noci, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
La scena che vediamo sulla fronte di questo sarcofago raffigura il gioco delle nuces castellatae: su una base di tre noci collocate a terra, bisognava lanciarne una quarta che si doveva posizionare al centro, formando una piccola piramide. Il rilievo ci mostra cinque bambine e otto bambini, intenti a giocare: uno di loro trasporta il sacchetto di noci, uno è intento a lanciare, un altro si accapiglia con un compagno di giochi, per terra diversi mucchietti di noci, segno che il gioco è in pieno svolgimento. 

Museo Chiaramonti, Rilievo di Mitra tauroctono [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Rilievo di Mitra tauroctono [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
In alto (settore XIV) potete osservare un bel rilievo di Mitra tauroctono, scolpito secondo l’iconografia consueta.

Nel registro superiore vediamo le personificazioni del Sole e della Luna, al centro sotto un cielo stellato, il dio, in vesti orientali e con il volto rivolto verso il Sole, sta sgozzando un toro con un coltello, sotto gli sguardi dei due tedofori Cautes e Cautopates, uno con la fiaccola alzata, l’altro con la fiaccola rovesciata, a simboleggiare da un lato la luce del sole e la rinascita, dall’altro la notte e la morte. Naturalmente non mancano gli animali associati alla mitologia mitraica: il corvo, messaggero del Sole, il serpente e lo scorpione che attanaglia i testicoli del toro, ambedue inviati dal dio del male Ahriman, che tentano invano di ostacolare l’azione purificatrice del sangue che sgorga, il cane che lecca le ferite del toro.

Il mito di Mitra, di origine indo-iranica, venne importato nel mondo romano dai legionari di stanza in Oriente e rielaborato dagli adepti – rigorosamente maschi – che costruirono migliaia di mitrei in tutto l’impero per le loro liturgie esoteriche, le quali prevedevano diversi gradi di iniziazione, abbinati a stelle e pianeti. Il mitraismo era una religione tipicamente maschile,  Il dio, nato invincibile da una roccia generatrice il 25 dicembre, che secondo gli antichi corrispondeva al solstizio d’inverno, sarebbe poi asceso in cielo dopo aver sacrificato il toro, il cui sangue, simbolo di fecondità, avrebbe reso possibile la rigenerazione del cosmo e la salvezza dei fedeli. Notate alcuni particolari: dalla coda del toro morente spuntano delle spighe di grano; in alto, sopra la volta celeste, la vegetazione rinasce dopo il gelo dell’inverno.

Braccio nuovo

Museo Chiaramonti, Augusto di Prima Porta [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Augusto di Prima Porta [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Il celebre Augusto loricato fu ritrovato nel 1863 nella villa di Livia, moglie dell’imperatore, a Prima Porta. Si ritiene che la statua in marmo bianco sia databile tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C., anche se alcuni studiosi ritengono che potrebbe trattarsi della copia di un originale bronzeo, realizzato a seguito della restituzione delle insegne romane da parte dei Parti nel 20 a.C.

L’imperatore è raffigurato in piedi, con il braccio destro alzato per richiedere l’attenzione dei suoi soldati prima della battaglia. Indossa un mantello, una tunica e una corazza finemente decorata, nella mano sinistra tiene una lancia (perduta), vicino alla gamba destra è presente un bimbo a cavallo di un delfino: si tratta di Eros, figlio di Venere. L’allusione alla dea non è casuale. Augusto, infatti, appartenente alla gens Iulia, riteneva di discendere da lei, in quanto madre di Enea, a sua volta padre di Ascanio.

Museo Chiaramonti, Augusto di Prima Porta, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Augusto di Prima Porta, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
La corazza merita di essere osservata attentamente: partendo dall’alto una personificazione di Caelum sovrasta una quadriga del Sol che procede verso la personificazione della Luna. Al centro, la scena più importante dal punto di vista propagandistico: il  re dei Parti Fraate IV restituisce a un generale romano le insegne catturate dopo la sconfitta di Crasso a Carre nel 53 a.C. Il generale romano con ai piedi un cane (o una lupa) potrebbe essere lo stesso Augusto, il dio Marte vendicatore oppure un simbolico legionario. Ai suoi fianchi sono due donne piangenti, la prima porta uno stendardo con un cinghiale e una tromba a forma di drago, la seconda porge una daga, potrebbero essere ambedue allegorie di popolazioni già sottomesse o in via di sottomissione da parte dei Romani. Nel registro inferiore infine si riconosce Tellus, dea della fertilità, con in mano una cornucopia ripiena di frutta, ai lati Apollo con un grifone e Diana con un cervo.

Presso i Musei Vaticani è presente anche un calco 1:1 della statua di Augusto raffigurata con colori molto vivaci.  Una serie di indagini scientifiche ha evidenziato tracce di policromia sulla scultura, prova che numerosi dettagli erano stati resi a colori.

Un’ultima curiosità: se vi trovate a passeggiare in via dei Fori imperiali, all’altezza del Foro di Augusto, incontrerete una replica in bronzo dell’Augusto di Prima Porta, priva dell’amorino.

Museo Chiaramonti, Personificazione del Nilo [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Personificazione del Nilo [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
La Personificazione del Nilo è uno dei capolavori del Braccio nuovo. Collocato nell’esedra, dopo essere stata esposto per volere di Leone X Medici (1513-1521) nel Cortile del Belvedere, il gruppo scultoreo fu rinvenuto con ogni probabilità nell’Iseo Campense, il grande santuario del Campo Marzio dedicato alla dea egizia Iside e al suo consorte Serapide, il cui culto venne introdotto a Roma nel I secolo a.C. La scultura è una replica romana del I-II secolo d.C. di un originale alessandrino in basalto nero che secondo Plinio venne fatto collocare nel tempio della Pace vespasianeo.  

Museo Chiaramonti, Personificazione del Nilo, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Personificazione del Nilo, dettagli [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
La presenza della Sfinge allude inequivocabilmente al Nilo, raffigurato come un muscoloso uomo barbuto disteso su un fianco, con un braccio poggiato su un’alta cornucopia da cui fuoriesce della frutta e con una mano che stringe un fascio di spighe. Sedici genietti, che si arrampicano sul suo corpo o giocano con i coccodrilli e una mangusta dalla lunga coda, personificano i cubiti, la misura di lunghezza più comune presso le antiche civiltà mediterranee, ancora oggi usata in alcuni paesi, definita dalla distanza dal gomito alla punta delle dita, pari a circa mezzo metro. E proprio con il cubito si misurava la crescita del Nilo nelle annuali inondazioni che rendevano fertile il terreno circostante: quanto più alto fosse stato il numero dei cubiti, tanto più ricco sarebbe stato il raccolto necessario a sfamare le popolazioni locali e la città di Roma.

Museo Chiaramonti, Personificazione del Nilo, dettaglio del basamento [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Personificazione del Nilo, dettaglio del basamento [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Osservate con attenzione il rilievo sulla base della statua: lungo uno dei lati corti, si sussegue una serie di animali nilotici, mentre sul lato frontale le acque del Nilo si innalzano sempre più, facendo crescere in tal modo il numero dei cubiti, le acque finalmente si ritirano per lasciar spazio, sull’estremità destra, a un prosperoso raccolto: il ciclo delle stagioni, che si perpetua anno dopo anno.

Un’ultima curiosità: la personificazione del Nilo fu una delle opere d’arte trafugate dalle truppe napoleoniche nel 1797 e restituite all’Italia dalla Francia in seguito alla sconfitta di Waterloo del 1815. I francesi tentarono senza successo di barattarla con il il colossale nudo di Napoleone scolpito come Marte pacificatore, realizzato da Canova per il Musée Napoléon (ribattezzato poi in Louvre) ma ritenuto “troppo atletico” dallo stesso generale, che lo fece occultare.

Museo Chiaramonti, Pavoni in bronzo dorato [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Museo Chiaramonti, Pavoni in bronzo dorato [Foto: Maria Teresa Natale, CC BY NC SA]
Proprio sul lato opposto del Nilo potete osservare due splendidi pavoni in bronzo dorato, che in origine decoravano con ogni probabilità la recinzione del basamento quadrato di sostegno al tamburo circolare del Mausoleo dell’imperatore Adriano, ultimato un anno dopo la sua morte, avvenuta nel 138 d.C. Dopo la caduta di Roma e la trasformazione del mausoleo in fortezza, i pavoni vennero recuperati per essere riutilizzati come decorazioni della fontana della Pigna (il Cantaro, per le abluzioni dei pellegrini) nel quadriportico della prima basilica di San Pietro. Con la ricostruzione della basilica nel XVI secolo, la pigna e i due pavoni vennero trasferiti in uno dei cortili del Belvedere dove sono ancora visibili delle copie. Se in epoca romana i pavoni, associati a Giunone, erano simbolo di regalità, in epoca cristiana vennero associati a Cristo, quali simbolo di immortalità e resurrezione. Del resto il pavone ogni anno perde le piume in autunno per poi vederle ricrescere in primavera. 

[Maria Teresa Natale]

 

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