Da Monte Ciocci a Valle Aurelia – già Valle dell’Inferno – passando per il quartiere Balduina. L’appuntamento per la passeggiata dell’8 febbraio è in piazza Giovenale, a Roma. Guidati dalla luce sfrontata di questo sabato precocemente primaverile scenderemo da vetta a valle, alla scoperta di un insolito villaggio: il borghetto dei fornaciari, insediamento di artigiani di una Roma divenuta da poco capitale d’Italia.
Il luogo d’incontro, con molte strade intitolate a poeti e scrittori latini, è la continua evocazione di un passato importante. Partiamo dalla piazza intitolata al retore romano Giovenale che esaltava la preghiera quale viatico per una mens sana in corpore sano e arriviamo in via Domizia Lucilla, madre dell’imperatore Marco Aurelio. Da queste parti c’è via Livio Andronico, che il 14 febbraio 2018 vide il terreno cedere e sprofondare per oltre 10 metri. Qualche anno prima, in questa strada, un gruppo di cittadini si mobilitò per salvare un meraviglioso pioppo destinato all’abbattimento per motivi di speculazione edilizia. Da questa battaglia nacque un comitato che da anni lotta per la difesa del territorio, la promozione della cultura e del senso civico dei residenti.
Ha una natura fragile la Balduina, nata su una collina di argilla fin dagli anni Venti del Novecento e devastata a partire dai Sessanta, con costruzioni intensive incastrate tra gli spazi lasciati dai garbati villini di inizio secolo. Un luogo ambito per la nascente borghesia rampante del boom economico, di cui si è finto di ignorare i pericoli legati al dissesto idrogeologico. Per questo, fa tenerezza il ricordo di infanzia di una nostra compagna di escursione che giocava con la terra della collinetta su cui ci stiamo inerpicando, grattandola con le unghie e collezionando i piccoli fossili rinvenuti. Con l’argilla si arricchì la famiglia di Domizia Lucilla grazie a una fabbrica di laterizi che avrà, tra i suoi epigoni, i fornaciari della Valle dell’Inferno, tappa finale del nostro cammino.
Il paesaggio che ci attende sulla collina del Monte Ciocci è un abbaglio. Nel gioco dei contrasti, lasciando le tortuose e oscure stradine del quartiere, siamo storditi dalla luminosità che ci attende sulla cima. Il colpo d’occhio è strepitoso.
Ci troviamo nel parco pubblico di Monte Ciocci, all’interno della riserva naturale di Monte Mario, conquista dei cittadini. La distesa verde divenne spazio aperto a tutti nel 2013, insieme all’attiguo parco lineare, con pista ciclabile che solca valle Aurelia e si snoda per cinque chilometri di percorso, intersecandosi con l’omonima fermata della metro A e della ferrovia Roma-Viterbo. Un segno urbanistico impattante ma necessario, la FL 3 – Ferrovia Laziale – con le moderne stazioni che si snodano lungo il percorso: Appiano, Balduina, Gemelli e Monte Mario. Un’ottima possibilità di trasporto intermodale, se l’organizzazione cittadina lo consentisse.
Se non fosse per il sorprendente panorama che si gode da qui si stenterebbe a credere di essere a Roma. Luce, sole, verde, aria, colori e odori della natura: tutto collabora a rendere unica la nostra passeggiata.
Il quartiere Prati è ai nostri piedi, gli eleganti caseggiati di inizio Novecento, sopraffatti dagli incombenti palazzoni del sacco di Roma, sembrano ricordarci il tempo in cui si costruiva ispirandosi al bello. Dominiamo la città del Vaticano con le possenti mura, ci sembra di poterle varcare da un momento all’altro.
L’aura papale si avverte dovunque: il toponimo “Ciocci”, non è che il rimaneggiamento di Ciocchi Del Monte alias Giulio III (1550-1555), il papa proprietario della villa cinquecentesca realizzata da Baldassarre Peruzzi per l’amico umanista Blosio Palladio, con affreschi della scuola di Perin del Vaga ora persi. Di essa rimane solo un torrione rimaneggiato in stile neogotico, la “Torre della luna”. Alcune fonti attribuiscono la denominazione della collina all’architetto di fiducia di Pio IX Francesco Ciocci, proprietario di una fornace, ma la disputa fra lui e Giulio III non è mai stata risolta. Negli anni Settanta qui proliferavano baracche messe su da sbandati e operai che lavoravano presso i cantieri di via Baldo degli Ubaldi e Boccea. La collina fu la “location” del celebrato film Brutti sporchi e cattivi con l’indimenticabile Nino Manfredi. Molti registi la elessero a set per le irripetibili caratteristiche ambientali. Dal 1947 è sede dell’istituto agrario e alberghiero Domizia Lucilla, già Federico Delpino e passeggiando scorgiamo gli attrezzi agricoli con cui si esercitano i ragazzi.
Per contrasto con tanta luce, aria e sole, siamo attratti nel nostro cammino da un luogo che fa da contraltare al ridente parco: le casematte appartenenti alla III e IV Batteria della Cinta fortificata costruita tra il 1885 e il 1905, che si estendeva per più di quattro chilometri per il controllo della zona fino ai Prati di Castello. Archeologia militare, fossati con scarpa e controscarpa, luoghi sotterranei, oscuri, ormai dismessi e abbandonati al degrado. Insieme ai forti militari di zona, Trionfale, Braschi e Boccea, potrebbero costituire un significativo punto di attrazione, un tempo c’erano anche ponti girevoli e levatoi per garantire le comunicazioni fra i tratti della Cinta: Tevere, Monte Mario, Monte Ciocci, Valle dell’Inferno e Vaticano. I residenti consideravano questi luoghi come bunker che, non più utilizzati, furono trasformati in abitazioni di fortuna dagli sfollati dopo la Seconda Guerra Mondiale. Negli anni Trenta da queste parti vennero piantati gli eucalipti per favorire il drenaggio del terreno che era molto ripido e scongiurare dilavamenti del costone collinare verso Valle Aurelia.
Non manca il tocco dell’artista nella nostra passeggiata: la scalinata dell’“urban transformer” Motorefisico che vede rappresentato Acrylic on Stairs, un disegno geometrico bianconero. Chi ha qualche capello grigio pensa alla moda che imperversava negli anni Settanta, stagione in cui i due colori dominavano su tutto: abiti, trucco, mobili, pareti. Sul sito www.motorefisico.com sono rappresentati tutti gli interventi dell’artista, tra cui anche Ciocci. La discesa a valle ha un sapore diverso rispetto al cammino nel parco. A mano a mano che si percorre il sentiero si perde il fulgore del panorama iniziale. Appaiono i segni della trascuratezza: rifiuti, vegetazione incolta, ringhiere divelte. Ė interessante osservare il canneto che ci circonda, ci racconta che sotto l’asfalto doveva esserci un corso d’acqua. Alcuni residenti ricordano le battaglie per denunciare il rischio idrogeologico derivante dall’urbanizzazione intensiva, tramutate poi in opposizione alla realizzazione del moderno centro commerciale Aura. Arriviamo a Valle Aurelia, già nota come Valle dell’Inferno, dove ci accoglie un pezzo di città fuori dall’ordinario.
Una costruzione anomala, un edificio con una forte impronta si impone sull’ambiente circostante: tetto a ombrello, mura in mattoni, profilo ovale e una evocativa ciminiera a memoria delle altre 17 analoghe, testimonianza delle fabbriche di mattoni che contrassegnarono lo sviluppo di questa zona da fine Ottocento. Ė la fornace Veschi, attiva dagli anni Venti del secolo scorso fino al 1960, memoria di un passato di archeologia industriale colpevolmente trascurato nella nostra città. La tipologia della fornace è “Hoffmann”, a ciclo continuo in quattro fasi: deumidificazione, preriscaldamento, cottura, raffreddamento.
Le geometrie della costruzione raccontano le metodiche di realizzazione dei mattoni con cui vennero costruiti gli edifici dell’epoca per una Roma in espansione. Potrebbe essere il museo dell’archeologia industriale nella Capitale, raccontare di quei pochi e affascinanti siti dimenticati da tutti. Per il momento è un bellissimo pacco regalo, rinnovato all’esterno ma vuoto dentro. Da tempo i cittadini hanno avanzato proposte per riconvertirla, il comune dovrà decidere. Il compianto inventore dell’estate romana, Renato Nicolini, qui avrebbe voluto realizzare la casa della storia del mattone.
Il restauro della fornace è opera dello “Studio Design International”, un team di costruttori che ha realizzato il centro commerciale Aura, cresciuto intorno all’antico stabilimento con cui ha tentato di evitare un impatto traumatico. Di realizzazione “porosa, permeabile” parlano i giovani progettisti, enfatizzando il tentativo di dialogo interno-esterno. Si ispira alle gallerie commerciali del XIX secolo, sul tipo della Vittorio Emanuele di Milano. Dentro, accanto agli spazi direzionali ci sono angoli per la sosta e la veduta dell’ambiente circostante. Vuol essere un esempio di nuova Agorà, un nucleo di aggregazione con la fornace punto di forza. Le mappe di Roma la ignorano, la toponomastica fa altrettanto. Studiata la scelta dei materiali: effetto pietra e pavimenti che simulano la strada lastricata, come le vie dell’antica Roma. In questa vallata nel 1527 i Lanzichenecchi che saccheggiavano la città fecero strage delle truppe pontificie, con una ferocia da evocare le pene dell’inferno. Da qui il toponimo che per anni ha contrassegnato la valle e che ormai è in disuso, per ricostruire una più edulcorata identità al quartiere. Ma molti amano pensare alla similitudine tra inferno e fumo delle fornaci, molto più poetica.
Di fronte la chiesa di San Giuseppe al Cottolengo, inaugurata nel 1979, che nel cuore degli abitanti dell’antico borghetto dei fornaciari non ha mai sostituito la storica parrocchia di Santa Maria della Provvidenza del 1917. Quest’ultima, con il suo aggraziato campanile, domina ancora sui resti delle antiche casette con massimo due piani ricavate dallo scarto dei mattoni. La chiesa di impianto moderno, opera dell’architetto Franco Ceschi, esibisce la struggente Via Crucis di Tino Perrotta e le lapidi a ricordo della visita di due papi: Giovanni Paolo II nel 1988 – il cui volto prende le sembianze di Simone di Cirene in una delle stazioni – e Paolo VI che venne qui nel 1977.
Scenografiche le vetrate policrome, una ritrae Don Guanella che agli inizi del Novecento venne a portare conforto agli abitanti disagiati della valle, mentre San Giuseppe Cottolengo è immortalato in un bassorilievo di Silvio Olivo. Per arrivare al borghetto il nostro percorso si snoda lungo la parte più attuale di via Valle Aurelia, quella che ha subito la più importante metamorfosi a partire dal nome. Non più l’inferno, evocatore di forti emozioni ma l’anodino toponimo ispirato alla consolare, nome più spendibile ai nostri tempi.
Gli imponenti grattacieli realizzati tra gli anni Settanta e Ottanta per ospitare i 1.500 fornaciari sfollati dal borghetto ci introducono in una Tor Bella Monaca versione lusso: sei torri di 12 piani, finestre sfalsate con gli infissi rossi, segno distintivo per movimentare il grigio dell’architettura brutalista (o per omaggiare il credo politico dei residenti, ndr). Una impronta indelebile nel paesaggio: facciate severe, nessun balcone, qualche parabola, impercettibile la presenza umana. Di fronte, a contrastare la rigidità dei casermoni grigio/rossi, un grande palazzo dai toni morbidi, color panna con inserti azzurri e facciata movimentata. Passando in treno sulla linea Roma-Viterbo ti sembra di sovrastare quei giganti di cemento, passeggiandoci sotto ti senti schiacciato. Attraversiamo il corridoio sede della Biblioteca comunale “Valle Aurelia”, tra le più fornite di Roma; altri locali sono destinati a varie associazioni e comitati che animano la poliedrica vita sociale del quartiere. Ricchissima la sequenza dei murales opera dell’illustratore e psicologo Miguel Villalba Sànchez – conosciuto come Elchicotriste – e di altri artisti.
Ci avviamo verso l’ultima tappa del nostro cammino. Ci raggiunge Carle, storico abitante della Valle, che ci guiderà alla scoperta di una storia di altri tempi. Si chiama proprio così – con la e finale – una sconosciuta e inconsueta variante di Carlo ed è l’indizio che ciò che ci racconta è qualcosa di unico. La Valle dell’Inferno – da ora in poi ci piacerà chiamarla così – non è un insediamento come gli altri borghetti informi della periferia romana del dopoguerra. Qui non vengono a stare immigrati disperati, lavoratori a giornata, persone che si arrangiano. Qui, a fine ‘800 si insedia una classe sociale ben identificata, quella dei fornaciari, professionisti del mattone, della ceramica, dei laterizi. Un sodalizio di marcata identità e senso di appartenenza, di idee socialiste e antifasciste.
La Roma dell’epoca, d’impronta piemontese, ministeriale, priva di un forte comparto produttivo, vede nella Valle dell’Inferno la vera rivoluzione industriale. Sarà per questo che ciò che rimane delle aggraziate abitazioni ricorda una piccola Londra e noi, in questo angolo di Roma inaspettato, ci sentiamo un po’ Alice nel paese delle meraviglie.
Tra le mille persone del borghetto ci sono immigrati del centro e sud-Italia ma anche veneti e romani, uniti dall’orgoglio di contribuire alla realizzazione di una città in espansione, dal 1871 capitale del Regno. Nel 1887 i primi scioperi, in cui cariolanti, livellatori, impastatori – le nuove specializzazioni artigiane – rivendicano i propri diritti, tanto da far nascere la leggenda di un Lenin ammirato da questa “Piccola Russia” nel cuore di Roma. Testimonianza del fervore politico del passato, la trasformazione dell’antico lavatoio nella Casa del Popolo.
Insieme a questa sette osterie, botteghe, la chiesetta con il grazioso campanile, le case degli artigiani: la pantalonaia, la carbonaia, l’imprenditore dei trasporti (tassinaro), il falegname. Tutti con una targa davanti alla porta di casa con nome, cognome, professione.
Si entusiasma Carle, nel rivangare un passato di cui si sente un po’ parte. Lui, nipote di un fornaciaro, così radicato al borghetto da non volersi spostare quando, nel 1981 si provvede al risanamento delle borgate e alla lotta all’abusivismo per volontà comunale, senza considerare che la Valle dell’Inferno abusiva non lo è mai stata. Non esisteva ancora un piano regolatore a Roma quando le 20 famiglie di fornaciari erano già una realtà.
Una realtà così consolidata da ottenere nel 1916 i primi riconoscimenti, con la istituzione della linea tranviaria che collegava San Pietro alla stazione Termini. Poi la costruzione di villini nelle zone circostanti negli anni Venti e la sistemazione dei lotti occupati dalle casette dei fornaciari con la creazione delle strade: l’omonimo vicolo che conduceva alla fornace Veschi, poi via delle Ceramiche, dei Laterizi, degli Embrici, dei Mattoni. Una toponomastica che si rispecchia pienamente con lo status dei residenti. Ci colpisce la prima casa di tutto l’insediamento in via dei Laterizi, tutelata dai Beni culturali. Un liberty “minore” da ristrutturare, con nulla da invidiare ai più blasonati quartieri residenziali. Allo stesso stile sono ispirate le casette riportate a nuova vita e trasformate in ambiti residence per turisti, con tanto di reception, lavanderia, patio con fontana e pesci rossi. Altamente scenografica la torre/serbatoio trasformata in elegante villino rosa con terrazza panoramica circolare, come quella della cupola di San Pietro, poco distante. Tutto qui ha una grazia particolare: sarà il silenzio, l’assenza di traffico, l’ambiente rarefatto. E il legame inossidabile tra le persone. Tutti i residenti che passano salutano con simpatia Carle, riconosciuta autorità morale del quartiere, secondo soltanto alla “Maestra Olga”, che ha tirato su generazioni di scolari del borghetto.
Carle è anche il motore del comitato di quartiere orgogliosamente denominato “Valle dell’Inferno”, quel comitato che tanto si è opposto fino a promuovere e vincere ricorsi per non distruggere il borghetto, per lasciare intatta una memoria di lavoro, di vita comunitaria, di coesione sociale e orgoglio identitario. Valori racchiusi nel ricordo dei partigiani caduti, come Alberto Di Giacomo il cui nome è impresso su una pietra d’inciampo davanti alla Casa del Popolo, divenuta nel 1993 la sede del centro sociale “Alice nella città”, nome ispirato al regista Wim Wenders.
Ammiriamo l’altra fornace con la ciminiera intatta, la Pomilia dal nome della famiglia che insieme ai Vaselli, i Bonomi, i Bellagamba, i Veschi e i Ciardi – divenuti poi imprenditori del mattone – animò questo villaggio. All’inizio degli anni ’60, quando le fornaci cessano l’attività, per il borghetto inizia la fase discendente.
Alla strenua lotta dei residenti, per non essere deportati nei vicini falansteri grigio/rossi resistono in pochi, tra questi Carle. Non ha resistito invece la vecchia sede del PCI, il cui edificio nella piazza centrale è stato abbattuto, spietata metafora delle sorti del partito. Qui c’è la fontana più antica, sullo slargo quadrato, un tempo cuore pulsante di questo “paese” discretamente inserito nella città.
L’eredità del bus della ditta Fattori è stata raccolta dalla linea Atac 495, che in questa piazza ha fissato il capolinea, nello stesso punto in cui il predecessore attendeva gli abitanti del borghetto che si imbarcavano nel “viaggio” verso Roma.
Perché i 400 eredi dei fornaciari conservano la memoria, esaltano il passato, non gettano alle ortiche ciò che c’era di buono, affinché diventi insegnamento per affrontare il presente e progettare il futuro. Lo testimonia il recupero dei locali che un tempo ospitavano la scuola, riutilizzati come centro anziani. Tutti quei vecchi sono la testimonianza vivente della storia del borghetto, i campioni della resistenza all’abbandono forzato della loro terra. Come Rosa, morta nel 1999, che qui ha voluto lasciare una lapide in suo ricordo.
Come i resti dei pavimenti delle case abbattute nel 1981, rimasti sul suolo a marcare il terreno, simbolo di resilienza, di convivenza con la nuova vita della Valle dell’Inferno: nata, cresciuta, minacciata, abbattuta e risorta. Dalla volontà degli uomini, dalla ostinazione di chi non si arrende mai.
[Giuseppina Granito, 4 aprile 2020]
Meraviglioso, ho sempre desiderato esplorare questo angolo rosso e proletario di Roma. Non lo avevo ancora fatto e questa passeggiata virtuale mi ha fatto del tutto immergere nel contesto, che spero di visitare presto ora che ne so di più
Ricordare la nostra storia e un prezioso contributo per il nostro futuro
Grazie !!!!
Siete Grandi
Visitare virtualmente quei luoghi, dove mia madre ha vissuto, in via delle ceramiche, è impagabile.
Grazie
E un vero angolo di storia che andrebbe valorizzato
Bravi e grazie
Bravi!
Si potrebbe avere qualche notizia in più sulla visita di don luigi Guanella e sulla chiesa Santa Maria della Divina Provvidenza?
VALLE AURELIA ORA E SEMPRE RESISTENZA
Sono felice che valle Aurelia non venga dimenticata
I ricordi della mia infanzia sono vivissimi sono alla ricerca di foto dal 1950 al 1964
Che tristezza, solo chi non ha avuto come me la sventura di crescere a Valle Aurelia ne può parlare in maniera poetica.
Dove fu tenuto sequestrato il Duca Grazioli?
I famosi palazzoni di Valle Aurelia
L’architettura brutalista che ha abbruttito intere generazioni
Devastando il paesaggio di chi dai monti di Creta si affaccia verso il Cupolone, bruciando i sogni di chi per primo ha ricevuto quelle case
Nessun proletario vive più in quel contesto, i laureati si contano sulla punta delle dita, quasi nessuno frequenta la biblioteca, c’è solo degrado interiore ed esteriore,
Il quartiere si ricorda dei Brutti quando qualcuno si suicida, quando c’è una retata dei carabinieri, o quando scoppia una rissa, fantasmi isolati dal resto del quartiere, un marchio indelebile su tanti nati in quel contesto brutale, quelli di brutti sporchi e cattivi, quelli brutalizzati dalle promesse mai mantenute di rivestire quel cemento bruto, che ti riempie la gola di muffa, che di inverno ti gela le ossa e l’estate ti sbollenta le tempie