Il respiro affannoso e pesante dell’artista Mike Stewart si sentiva in tutta la stanza silenziosa. Le sue opere, disposte in ogni angolo della camera, osservavano mute e diffidenti il loro creatore, lo scalpello che gli diede origine; ferme ed immobili, quelle pose perfette e quei visi da favola, deridevano con lo sguardo il povero tormentato, il venticinquenne più comune che potesse mai esistere. Stewart era umile, dolce e aveva sempre un sorriso stampato sul volto ma, nonostante ciò, la critica lo ha sempre assalito e demoralizzato, rendendogli la vita un ostacolo continuo da superare.
Il suo sogno era diventare famoso, riconosciuto ed essere un’icona nel campo scultorio; voleva ”toccare con le proprie mani” quest’obiettivo per l’approvazione da parte della sua musa, l’unica persona che lo ispirava ad andare avanti: Jennifer Weiner.
Era una signorina graziosa, aveva un corpo molto minuto e un baffetto sopra al labbro, il suo tratto più distintivo fra tutte le sue coetanee. Ella vide per l’ultima volta la sua famiglia poco prima del suo decimo compleanno e la notizia distrusse la ragione e la sanità dello scultore, egli non si sentì più sé stesso.
Le sue sculture erano come dei bozzetti che prendevano piano piano coscienza e consapevolezza mentre quelli più recenti diventavano un incubo, un’ossessione per trovare la perfezione, l’unico ostacolo che lo bloccava dal raggiungere il successo che egli le promise il primo giorno che la incontrò.
Durante la gelida notte del 5 febbraio 1947, si decise: prese lo scalpello e cominciò ad immaginare la strada con cui avrebbe raggiunto tutte le sue aspirazioni più grandi. Dal cadere del giorno fino all’arrivo dell’alba, rimase chiuso da solo, soltanto lui e un’enorme quantità d’argilla, che lui voleva trasformare in una scultura differente da tutte quelle formidabili donne, teneri bambini e famiglie spensierate, pronte a vivere una vita grandiosa, che aveva riprodotto per anni ed anni: rappresentò un pugile, la figura che per lui costituiva di più la forza di ogni uomo.
Fece ricerche continue, soltanto per trovare un’armonia e proporzione senza alcuni precedenti. Preparò un equipaggiamento vasto con pennelli, scalpelli e tempere di ogni tipo e, pronto e determinato, idealizzò la sua opera come maestosa e dignitosa di riconoscimento.
Si alzò dalla sua grande poltrona, dove si crogiolava per la maggior parte del tempo ed, esitando un po’, prese un grande blocco per i suoi bozzetti e cominciò a disegnare la sua opera nei massimi dettagli e dopo aver buttato più di venti fogli sul pavimento, finalmente realizzò lo schizzo perfetto.
Si avviò frettoloso, prese un lungo filo di ferro e cominciò a creare l’ossatura del suo capolavoro. Appena finì, guardo soddisfatto la fase iniziale del suo lavoro con un sorriso compiaciuto per gli sforzi fatti. Dopo aver finito il supporto, si affrettò a prendere un piedistallo di legno per ancorarlo. Prese tutti i fogli che buttò furiosamente sul pavimento e cominciò a ricoprire con essi l’ossatura. Successivamente, si recò dall’enorme blocco d’argilla e cominciò a ricoprire il sostegno con strati molto grandi.
Finita la composizione generale, la quale consisteva in un pugile sfinito e seduto che si riposava dopo un incontro, cominciò ad aggiungere diversi dettagli qua e là per accentuare il muscoloso torace e la forma degli occhi calmi e stanchi. Nonostante fosse sfinito, prese un utensile, riconducibile ad un taglierino, e piano piano segnò ogni piccolo pelo della barba e dei capelli, disponendoli in modo ordinato. Poi decise di dedicarsi alla bocca, una delle sue parti preferite da ritrarre: cominciò a creare i denti inferiori e, per accentuare le ferite e la lunga carriera del suo soggetto, saltò completamente i superiori. Passarono ore ed ore ma, nonostante ciò, lui continuava a cesellare e scolpire sempre più dettagli, infatti, ogni secondo che passava era un particolare che aggiungeva. In poco tempo arrivò l’alba e sfinito si appoggiò al muro per chiudere gli occhi per qualche secondo.
Non riuscì più a ragionare con la testa e venne colpito in poco tempo da un attacco di ira incontrollabile. Si riprese e, furioso e insoddisfatto, prese un’asta lunga di legno che teneva vicino alla sua scrivania, e correndo all’impazzata, colpì in pieno il suo operato. La testa venne scaraventata dall’altra parte della stanza e il braccio sinistro, sostenuto dalla gamba sottostante, si staccò come se fosse una leggera piuma. Cominciò ad urlare, picchiò numerose volte il muro e, pieno di ira e inappagamento, ridusse in pezzi il suo capolavoro. Poco dopo si calmò e guardò scioccato tutto il suo gran da fare in completi frantumi.
Se ne andò da quella stanza e si diresse verso la sua cucina; prese una tazza di tè e mise a scaldare, a fuoco lento, dell’acqua dentro una piccola teiera. Aspettò pazientemente e continuò a riflettere sull’azione che aveva compiuto pochi minuti fa. Calmatosi lentamente grazie al cinguettio degli uccellini, andò alla finestra e osservò ogni elemento che gli diede una sensazione di libertà e rilassamento. Per quanto fosse attento, riuscì a sentire le urla di gioia dei bambini che erano spensierati e cominciò a lacrimare perché egli non aveva mai avuto alcuna opportunità di vivere la propria infanzia in modo soddisfacente. In seguito, si riprese e asciugò il proprio viso dall’amaro rimorso e guardando verso i fornelli, andò a prendere la sua tazza pronta e ritornò nel suo piccolo covo.
Riaperta quella porta, vi era soltanto un piccolo frammento di luce che illuminava la stanza. Finita di sorseggiare la bevanda, riprese il blocco per i bozzetti e decise di cambiare idea: non voleva più fare una scultura dettagliata, anzi, decise che avrebbe trovato un modo migliore per rappresentare la perfezione.
Gli venne un’idea brillante e, di nuovo felice per la massima inspirazione, portò ogni sua singola opera dentro la stanza, le esaminò una ad una e annotò tutti i particolari in comune. Stewart scrisse frasi come ”stessa forma degli occhi” oppure ”labbra poco carnose”, ma non era ciò che gli interessava; ormai per lui era importante una sola cosa, ciò che le accumunava: il tempo e la pazienza che ci mise. Non voleva più impiegarci il meno tempo possibile, anzi, decise di darsi un ampio periodo per completare il proprio capolavoro. Appoggiò sulla sua scrivania gli appunti e proprio quando stava per cominciare, si sentì crollare: era un sentimento insolito, particolare e non riusciva più a controllarsi. Sembrava che ogni muro, ogni pavimento e ogni scultura stessero svanendo nel nulla.
Cominciò a piangere e con il respiro pesante, non riuscì neanche più a gridare; voleva chiedere aiuto, ma era tutto inutile: la sua voce scomparve, non riusciva più ad aprire gli occhi e con il dolore insopportabile che sentiva alla testa, cadde senza vita sul pavimento dove egli distrusse il suo pugile. Fuori dalla sua casa c’erano persone che si divertivano, bambini che giocavano e madri che tentavano di rincorrerli per assicurarsi che stavano bene. Diede proprio l’impressione che quella felicità non potesse entrare in quella stanza, dalla quale il giovane artista provò a scappare senza successo.
[I.C. Viale Venezia Giulia, Roma, Scuola secondaria di primo grado, Plesso di Via di Torre Annunziata, Classe IIID, a.s. 2021-2022, alunna Martina De Rosa]
Questo racconto, ispirato al Pugile in riposo del Museo Nazionale Romano, è stato inviato alla redazione di APPasseggio Blog nell’ambito del concorso di scrittura creativa: “Narrastorie da museo: le opere d’arte prendono vita” (edizione 2022).