Secondo segmento del cammino lungo l’Antica Trasversale Sicula, una serie di post per raccontare il nostro cammino (circa 130 chilometri da Mozia a Salemi in sei giorni dal 30 aprile al 5 maggio 2023) che ci ha portato a conoscere cittadine, borghi e territori del Trapanese e della Valle del Belice.
L’anno scorso vi avevamo raccontato della nostra esperienza lungo il tratto finale della Trasversale, da Sortino a Scoglitti di Kamarina, stavolta invece abbiamo deciso di far iniziare la nostra avventura dall’isola di San Pantaleo, sede della colonia fenicia di Mozia, alla quale dedichiamo questo primo post. Siamo partiti in tredici, accomunati dall’amore per la Sicilia e la passione del camminare.
Raggiungiamo l’imbarcadero per l’isoletta con un pullman privato da Trapani. I traghettini partono ogni mezz’ora a partire dalle 10. Facciamo due passi lungo il molo in attesa della breve traversata. Una delle barchette è intitolata a Tanit, consorte di Baal Hammon, protettrice della città di Cartagine e dea della fertilità.
L’isola di Mozia con l’annesso Museo sono gestite dalla fondazione creata in memoria di Giuseppe Whitaker, appassionato studioso di scienze naturali, ornitologia, storia e archeologia, che ai primi del Novecento acquistò l’isola, studiandola e avviando i primi scavi sistematici. Joseph Isaac Spadafora Whitaker, chiamato familiarmente Pip (1850-1936) era membro di una ricca famiglia di magnati inglesi. Il suo prozio era nientemeno che Benjamin Ingham, inventore, produttore ed esportatore del vino marsala.
Oltrepassata la biglietteria, ci danno il benvenuto con le loro possenti e ombrose braccia dei meravigliosi alberi di ficus, oltre i quali si dipartono diversi sentieri.
Decidiamo di mantenerci all’esterno e fare il periplo dell’isola, profumatissima e coloratissima per le distese di fiori primaverili sparsi un po’ ovunque. Nessuna fotografia rende a sufficienza la bellezza e l’atmosfera del paesaggio.
Spostiamo la lancetta del tempo all’VIII secolo a.C., epoca del primo insediamento a opera dei fenici, fieri navigatori che provenienti dall’Asia minore, scelsero proprio Mozia come punto di approdo lungo le rotte commerciali per l’Italia Centrale, la Sardegna e la Spagna. La presenza dello stagnone consentiva la difesa da attacchi nemici e l’attracco sicuro delle navi. La colonia fenicia visse un periodo di relativa tranquillità per circa 250 anni, fin quando, nel VI secolo la situazione geopolitica cambiò: da un lato Cartagine premeva per accrescere il proprio dominio nel Mediterraneo, dall’altro le città greche di Sicilia cercavano anch’esse di aumentare la propria influenza nei territori limitrofi. Mozia si dotò pertanto di possenti mura turrite di calcarenite per meglio difendersi dagli attacchi, ciononostante non riuscì a resistere alla distruzione per mano del tiranno siracusano Dionigi nel 397 a.C., a seguito della quale i superstiti si trasferirono sulla terraferma nella cittadina di Lilibeo (odierna Marsala). Nell’XI secolo vi si insediarono i monaci basiliani di Palermo che intitolarono l’isola a San Pantaleo, fondatore dell’ordine.
Giriamo l’isola in autonomia per godere della magia del paesaggio. Incrociamo quasi subito la cosiddetta “Casa dei mosaici”, dotata di un portico colonnato pavimentato con mosaico a ciottoli decorato con raffigurazioni di animali alati, capridi dalle lunghe corna, felini e persino un cavallo. Non sono noti finora Sicilia altri esempi di pavimenti di questo tipo, datato dagli archeologi al III secolo a.C. epoca già piuttosto tarda.
Oltrepassiamo la porta Sud (una porta “scea” che cioè non era in asse con la strada che da essa si dipartiva) e raggiungiamo il kothon, ritenuto a lungo un bacino di carenaggio artificiale al quale Giuseppe Whitaker aveva dato questo nome per la sua somiglianza con un bicchiere dalla bocca tonda. Secondo indagini recenti a cura della missione archeologica della Sapienza Università di Roma che ha stravolto l’identificazione originale, il bacino poteva essere una piscina sacra non collegata con il mare, ubicata al centro di un complesso religioso con tre templi circondati da una cinta muraria: l’ipotesi è che la vasca, alimentata da tre sorgenti di acqua dolce, venisse utilizzata per l’osservazione di fenomeni celesti, dal momento che gli edifici circostanti erano orientati verso costellazioni simboliche e stelle nascenti o calanti. Scavi ancora più recenti hanno consentito di attribuire uno dei templi alla dea Astarte, la grande madre fenicia legata alla fecondità, un altro al dio Baal, il re degli dei, signore del mare in tempesta e delle acque sotterranee. Il rinvenimento di un piede scolpito su un blocco di pietra ha fatto ipotizzare che una statua di questo dio fosse collocata su un basamento al centro della vasca sacra. Oggi il kothon, però, è collegato col mare. Perché? Probabilmente in un’epoca successiva alla distruzione dei templi, fu costruito un canale per sfruttare tutta l’area come peschiera e/o salina.
Proseguiamo il nostro periplo. Dopo qualche centinaio di metri raggiungiamo la porta nord, ancora ben riconoscibile. Da qui partiva una strada, oggi sommersa, che metteva in comunicazione l’insediamento di Mozia con la necropoli di Birgi, una delle più importanti al servizio degli abitanti dell’isola. Sembra che la strada sommersa sia ben visibile nel mese di gennaio all’epoca delle maree sigiziali. Diodoro Siculo, storico siceliota del I secolo a.C., racconta:
Giace questa città in un’isola sei stadj distante dalla costa, bella oltre modo per la moltitudine ed eleganza degli edifizj, e piena di abitanti d’ogni cosa ricchi. Ha poi essa una stretta strada, per la quale comunica colla Sicilia.
All’epoca del fatale assedio, gli strateghi del tiranno siracusano Dionigi puntarono proprio su questa sottile striscia di terra che collegava l’isola con la terraferma, facendola ricostruire e arginare e facilitando in tal modo le operazioni di assedio, per le quali fu fondamentale anche la flotta da guerra. In pratica la strada rendeva l’isola una penisola e anni dopo Alessandro Magno, nell’assedio di Tiro (332 a.C.), si ispirerà proprio alla strategia siracusana adottata a Mozia.
Poco oltre, scorgiamo lo scavo del “Santuario del Cappidazzu” che deve il nome al “cappellaccio” posto in cima a un bastone nei vigneti: a poca distanza da qui, nel 1979, venne alla luce, a seguito di una picconata, la statua del celebre “giovane di Mozia”, esposto nel locale museo, una delle più straordinarie statue di epoca classica (V secolo a.C). Chi poteva rappresentare il giovane vestito di lunga tunica plissettata? Le ipotesi sono molteplici: un auriga, un dio, un magistrato, un sacerdote… A breve contempleremo, affascinati, la perfezione delle sue forme.
Costeggiamo l’area della necropoli e del celebre tophet, dove sono state rinvenute numerose urne cinerarie con resti di bambini. Il termine, citato nella Bibbia, rimanda a una località nei pressi di Gerusalemme presso la quale si riteneva che venisse praticato il sacrificio dei bambini. In seguito il termine è stato utilizzato per designare tutte le aree fenicio-puniche con urne cinerarie contenenti resti infantili, poste sotto la protezione della dea Tanit. Secondo gli studi più recenti, i tophet non sarebbero mai stati teatro di sacrifici umani, propagandati piuttosto da ebrei prima e romani dopo per screditare i cartaginesi. Queste particolarissime aree sacre avrebbero accolto piuttosto resti di feti o bambini e bambine morti in tenerissima età.
Ormai piove e ci dirigiamo verso il museo, costeggiando un vigneto di Grillo, vendemmiato ogni anno a mano e trasportato in terraferma su barche a fondo piatto attraverso la laguna.
Il museo è un piccolo gioiello: oltre ad alcuni plastici ricostruttivi alcune sale ospitano la storica raccolta di Joseph Whitaker, in allestimento datato ma sempre affascinante. Negli armadi e nelle vetrine si conservano oggetti legati alla vita quotidiana, ceramica, ex voto, bronzetti recuperati nel corso degli scavi a testimonianza della vita vissuta nei secoli dalla colonia fenicia.
Tra i tesori della raccolta, incuriosiscono le straordinarie stele fenicie rinvenute nel tophet, prova di un artigianato molto evoluto, come nel caso delle stele doppie con immagini di profilo affrontate, o di quelle con figura femminile frontale con i capelli ricadenti in bande sul petto, le braccia protese in avanti e la lunga veste, o le più semplice stele con immagini stilizzate, cosiddette “idoli a bottiglia”.
L’isola ha anche restituito numerosi reperti afferenti a un quartiere industriale, dove si lavorava la porpora. Ne sono testimonianza i numerosi resti di murici, i gasteropodi che fornivano la materia prima per la tintura.
Dopo aver gustato un saporito “pani cunzatu”, pane condito con ingredienti locali, nel gradevole punto di ristoro dell’isola, riattraversiamo lo stagnone con la barchetta e ci fermiamo per una breve sosta presso le saline di Marsala, oggi parte di una Riserva orientata, ma per secoli attività produttiva strategica per l’economia della zona.
Le vasche si susseguono l’una appresso all’altra e lo sguardo è rapito dalle sfumature di colore dell’acqua e del cielo. Qualcuno del gruppo si sofferma al Mulino d’Infersa, dove un percorso multimediale racconta la storia dell’edificio e della salicoltura locale.
[Maria Teresa Natale]
Cronaca del cammino da Mozia a Salemi, 29 aprile-6 maggio 2023
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